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Il mondo cambia (e brucia?). “Faccio la mia parte!”

6 Febbraio 2020
di Letizia Paolozzi

Rula Jebreal a Sanremo

C’è disordine nell’ordine simbolico.
Gramsci diceva che “il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Non è cosa di oggi ma oggi ha contorni più precisi.
Forse si tratta di nostalgia per la scena patriarcale perché – lo sostiene Putin – “il mondo è basato sui valori biblici”. Oppure dipende dalla voglia di disciplinamento dei corpi o dalla vecchia posizione maschile che prova a riprendersi un ruolo dominante. Magari è “colpa” della libertà femminile, del cambiamento nei rapporti tra uomini e donne che non va giù al nuovo-vecchio tipo di padre-padrone.
Non si può tirare una linea precisa dal momento che i rigurgiti del passato si confondono con i sussulti di modernizzazione. Per esempio, Matteo Salvini esalta mamma, Madonna, rosario e ruolo femminile entro le mura domestiche e contemporaneamente assicura che in casa e camera propria ognuno fa quello che vuole.
Altro esempio, quanto sta accadendo intorno alla scena illuminata di Sanremo. Apre le danze Amadeus quando, parlando della fidanzata di Valentino Rossi, sottolinea che “sa stare un passo indietro rispetto a un grande uomo”. Frase infelice. Ma pure i leader delle applauditissime Sardine si sono mossi con troppa ingenuità lasciandosi fotografare accanto a Luciano Benetton e Oliviero Toscani. Ammettendo poi l’errore. Quanto al presentatore, descritto da Fiorello come abilissimo “nel provocare una moria di ospiti”, anche lui si è scusato con le femministe arrabbiate.
Gira l’hashtag #IoNonGuardoSanremo. Salta fuori anche una vecchia, offensiva canzone del rapper Junior Cally (pare che il rap pretenda certi eccessi linguistici…). Le serate nazional-popolari promettono di metterci una pezza e schierano dieci donne belle. Qualcuna anche brava. Rula Jebreal commuove parlando dello stupro di sua madre. E ricordando il numero dei femminicidi in Italia.
Dal luglio 2018 al giugno 2019 presso la procura di Napoli, ha notato il procuratore generale Luigi Riello all’inaugurazione dell’anno giudiziario “sono stati iscritti 241 procedimenti per omicidio consumato, nove dei quali su donne e 77 di tentato omicidio, sette dei quali in pregiudizio di donne”.
Noi vogliamo nominare le vittime più recenti. Avevano storie diverse ma sono tutte morte per mano di un assassino che “possedeva le chiavi di casa”. Rosy e Monica, 48 e 27 anni, combattevano la violenza sulle donne, la ha uccise Michele Noto, “considerato persona tranquilla”, appassionato di bodybuilding e di armi, ventisettenne, che poi si è suicidato. Per il sindaco di Mussomeli, Caltanisetta, deve essersi trattato “di un cortocircuito mentale”. Fatima, 28 anni incinta di 8 mesi, soffocata in Alto Adige dal marito dopo averla presa a pugni e calci. Speranza, 50 anni, ritrovata a due mesi dalla morte tra gli ulivi ad Alghero, ricoperta da materiale alluminico usato per dissuadere gli animali selvatici. Il fidanzato che continua a proclamarsi innocente, è stato arrestato. Laureta, 53 anni, caduta dopo dieci coltellate infertele dal marito per gelosia. Rosalia, 52 anni “trattata come pecora da macello” ha detto il vescovo, ammazzata di botte a Mazara del Vallo dal marito che lei aveva già denunciato. Francesca, 39 anni, violentata prima di essere ammazzata, a Brescia. Come la sua compagna di banco, Elena, nel 2006.
Tutto questo in meno di dieci giorni, in Italia.
Per quelle che auspicano un aumento delle pene in modo da “scoraggiare” gli assassini, ci sarebbe il paradosso del presidente della II Sezione Penale della Cassazione, Piercamillo Davigo il quale, preso dalla sua passione carceraria, ha evidenziato che “in Italia conviene uccidere la moglie piuttosto che divorziare”. Tra sconti di pena e attenuanti il carcere effettivo di un condannato può ridursi a 1 anno e 4 mesi. Per il divorzio ci vuole più tempo. Ma non sarà anche questa un’istigazione all’uccisione di una donna?
Per merito del #MeToo e della parola femminile finalmente creduta, per il lavoro politico di tante, la drammaticità di una simile condizione è arrivata anche sulla scena di Sanremo.
Ma fino a che punto è davvero ascoltata la parola femminile se incontriamo sempre qualcuno che tira all’indietro, che ripiega sul linguaggio misogino, che continua a coltivare gli stereotipi?
Consideriamo la soddisfazione perché tre biologhe dello Spallanzani (la ricerca è un campo molto frequentato dalle donne, forse perché le donne preferiscono generalmente non mostrarsi sulla scena illuminata) di cui una precaria, hanno isolato il coronavirus. A celebrarle non solo il mondo femminile ma quello dei media. Qualche giornale (La Repubblica, Il Messaggero) le ha chiamate (in memoria dell’angelo del focolare o del ciclostile) “gli angeli della ricerca”.
Dunque, la scena pubblica, non solo i più ostinati e ottusi tra i maschi, fatica a tenere conto che il mondo, e il linguaggio che lo racconta, è cambiato. Che il simbolico si sta trasformando perché le donne stanno costruendo un discorso capace di comprendere la loro differenza.
Gli uomini riescono a capirlo? O nemmeno ci provano? Dipenderà dall’abitudine a un linguaggio considerato universalmente ed eternamente neutro? Evidentemente, non è facile nominare la realtà in movimento. E intervenire con cura, con senso di responsabilità.
Ci è riuscita la donna fotografata dal Mattino di Napoli qualche giorno fa mentre scalava la montagna di rifiuti nella zona di Porta Nolana per procurarsi il ticket e pagare il parcheggio. Come quel colibrì che volava verso l’incendio, una goccia d’acqua nel becco, e al giaguaro che scappava in direzione opposta chiedendogli “ma che fai?” rispose: ”Faccio la mia parte”.

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