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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

C’era una volta il femminismo sindacale

25 Gennaio 2020
di Paola Pierantoni

Questo intervento di Paola Pierantoni è stato portato al convegno 1969-2019 dall’autunno caldo ad oggi. Lavoro e diritti, conquiste e sconfitte , svoltosi a Genova il 27 Novembre 2019

A causa di varie attività ho contatti frequenti con persone, ragazze e ragazzi, molto più giovani di me, dai trenta, e anche meno, ai quaranta anni, e in questa occasione ho pensato a loro, che vivono problemi, rischi, condizioni, sollecitazioni e potenzialità inedite. Cosa può servirgli di quello che abbiamo fatto e vissuto, con le lotte del 1968, dell’autunno caldo, e degli anni ’70?
Nei cinquant’anni di cui parliamo, dal 1969 ad oggi, il mondo si è totalmente trasformato, in tutti i suoi aspetti.
Le mie giovani amiche ed amici hanno vite continuamente variabili e precarie, mentre la mia storia è quella di una donna che, nel 1972, dopo la laurea, a ventisei anni, è stata chiamata da un’azienda per un colloquio, e poi subito assunta a tempo indeterminato, col posto conservato nonostante la successiva scelta di esercitare il mestiere di sindacalista a tempo pieno, per poi accedere alla pensione di vecchiaia a soli 60 anni di età.
Cosa posso dire di utile da questa prospettiva?
Forse una strada è parlare degli strumenti che avevamo utilizzato per modificare la realtà in cui vivevamo: a volte alcuni strumenti possono essere efficaci anche in tempi mutati.
Farò questo dal punto di vista della mia personale esperienza, raccontando come mi sono trovata a prendere parte di quel movimento a cui ora ci riferiamo parlando di “femminismo sindacale”.
Dunque, la mia fabbrica era l’Elettronica San Giorgio, azienda a prevalenza tecnica e impiegatizia che all’epoca aveva circa 1200 addetti. Di donne laureate ce ne erano solo due, un’ingegnera ed io. Raro privilegio, quindi, esservi assunta. Quanto alle altre donne, circa 200, erano o impiegate d’ordine: segretarie, perforatrici meccanografiche, contabili, oppure operaie di bassa qualifica: non si andava oltre il terzo livello. L’azienda avrebbe poi dichiarato in un incontro, esplicitamente e senza imbarazzo “che le donne erano particolarmente adatte per la loro dote di pazienza, a svolgere lavori ripetitivi e parcellizzati”.
La mia emozione, immediatamente dopo l’assunzione, fu quella di trovarmi in una situazione chiusa, soffocante, da cui avrei voluto subito fuggire.
La fortuna però era che venivo dalla facoltà di Fisica che era stata all’epicentro del 1968 genovese. I punti di riferimento nelle nostre assemblee studentesche erano stati Giulietto Chiesa e soprattutto Franco Carlini; avevo già visto una fabbrica in lotta, la Paragon Italia occupata, dove eravamo andati con una rappresentanza degli studenti.
Così per me fu naturale cercare molto presto di capire cosa c’era al di fuori e al di là dell’ufficio in cui svolgevo il mio lavoro “tecnico”, con la scoperta che la vita intellettuale e politica si svolgeva nei reparti operai. Nei reparti operai maschili.
Il fermento, l’interesse, le discussioni, erano vivissime e si protraevano dopo l’orario di lavoro. Era normale, all’uscita, fermarsi nei locali del Consiglio di Fabbrica per discutere, per capire.
Ma questo avveniva tra gli operai. Le donne correvano a casa.
L’anno successivo alla mia assunzione, nel 1973, fu firmato il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici che introdusse due conquiste rivoluzionarie: l’Inquadramento Unico, che infrangeva la storica barriera tra operai e impiegati fino ad allora inquadrati professionalmente e normativamente in modo separato, e le 150 ore per il diritto allo studio che introduceva il diritto di 150 ore retribuite per conseguire non solo il diploma della scuola dell’obbligo, ma anche per “migliorare la propria cultura”, attraverso seminari universitari su argomenti che venivano scelti e proposti dal Sindacato alle diverse Facoltà Universitarie.
Io entrai in consiglio di fabbrica proprio nel 1973, delegata del mio reparto di impiegati tecnici, e crumiri. Erano anni in cui si stavano affermando strumenti di lavoro politico nuovo, che poi sarebbero stati importantissimi anche per le donne, anni costellati da questionari, ricostruzione dei cicli di produzione, interviste, assemblee (si diceva) “di gruppo omogeneo”, cioè in cui le persone che condividevano il medesimo ambiente di lavoro descrivevano la propria condizione: l’organizzazione del lavoro, la professionalità espressa, i rischi, i sintomi, i disagi, i bisogni. Si mettevano in comune conoscenze e competenze non riconosciute, spesso inconsapevoli. Si faceva formazione ai delegati sindacali perché imparassero essi stessi ad utilizzare strumenti tecnici di misura e di analisi. C’era un’espressione: “la non delega”. Su queste conoscenze diffuse si fondavano le rivendicazioni e le lotte.
Contemporaneamente le 150 ore aprirono la possibilità di un rapporto tra la fabbrica e l’Università. A Genova il primo seminario fu “Ambiente di lavoro e salute”, organizzato da Sergio Zanardi, grande medico del lavoro.
Si cercava un confronto, una dialettica, tra le conoscenze che venivano espresse e costruite dai lavoratori stessi attraverso l’analisi della propria condizione, e le conoscenze dei tecnici, degli esperti. Tra questi due poli si aprivano conflitti ed alleanze. Di certo c’era una relazione.
In quegli anni, però, le donne come soggetto politico autonomo, e rivoluzionario, per me ancora non esistevano. Non so e non ricordo quanto, all’epoca, fossi consapevole del femminismo, ma qualcosa stava già filtrando se il 1 ottobre 1974 avevo organizzato, da delegata, nel reparto montaggio componenti elettrici, un’assemblea che aveva come ordine del giorno “La condizione della donna in fabbrica”, chiedendo all’azienda di consentire la presenza di tre persone esterne, chiamate in quanto “esperte”: Raffaella Felletti, Rossana Cirillo e Liliana Boccarossa.
Sempre in quei primi anni ’70 alcune donne, che poi animarono il Coordinamento Donne FLM di Genova e le 150 ore delle donne, incontrarono il Collettivo Femminista di Via Ponte Reale, mentre altre avevano costituito il gruppo “Donne e ricerca” che si riuniva nei locali della Facoltà di Fisica.
I mondi dell’Università, della Fabbrica e del Femminismo stavano entrando in contatto tra loro.
Quello che vorrei comunicare è che si stava formando un tessuto. Le maglie si stavano creando qua e là, ma già iniziavano ad unirsi, informazioni e pensieri circolavano.
Questo tessuto si stava costruendo anche tramite i libri.
Il gruppo “Generazioni di donne” che alcune di noi crearono nel 2009, e di cui poi dirò brevemente, nel 2012 decise di raccogliere i libri che le “anziane del gruppo” conservavano nelle loro case, e di costituire, presso Archimovi, un fondo bibliografico che abbiamo chiamato “I libri di quegli anni”, che testimonia il terreno su cui si stava compiendo il cammino intellettuale e politico delle donne.
Questo processo di contaminazione e contatto tra mondi diversi fece sì che a partire dal 1975 le donne iniziarono ad utilizzare anche nelle fabbriche i metodi e gli strumenti del femminismo: il separatismo e il “partire da sè”, cioè la presa di coscienza del valore politico dell’esperienza personale di ciascuna, della connessione tra tutti i piani dell’esistenza, e dell’impossibilità di separare la sfera del lavoro da quella della famiglia, della sessualità, della maternità, della cultura.
Questi metodi costituirono la chiave della trasformazione.
A Genova il primo collettivo di donne autonomo nacque nel 1975 all’Ansaldo di Campi. Seguirono l’Italsider sede e di Cornigliano, il Tubettificio Ligure, l’Elsag, l’Italimpianti. Fu qui che entrai dentro al cerchio delle donne.
Questi collettivi di fabbrica crearono un loro coordinamento provinciale, il Coordinamento Donne FLM, che non comprendeva solo le donne delle fabbriche, ma tutte le donne, di tutti i settori, incluse casalinghe, disoccupate, studentesse: la trasversalità delle condizioni di ciascuna richiedeva che si costruisse una relazione politica tra tutte le donne, indipendentemente dalla loro collocazione esistenziale e lavorativa.
Il Coordinamento si riuniva tutti i venerdì alle 18 nella sede della FLM di Genova.
Le donne nelle fabbriche, impiegate ed operaie, si erano trovate improvvisamente di fronte a qualcosa di assolutamente inedito: altre donne che proponevano loro di rivendicare come un diritto luoghi e tempi riservati a loro, per parlare di se stesse, delle condizioni di lavoro, e di tutti i legami tra questa condizione e il resto della vita perché solo in questo modo si poteva acquistare parola, e perché solo la nascita di un nuovo soggetto politico, che portasse in sé queste contraddizioni profonde, poteva produrre un cambiamento.
Anche gli uomini si trovarono di fronte qualcosa di assolutamente inedito, e furono combattuti tra fascinazione e ostilità. Con la FLM, il sindacato dei metalmeccanici, allora unitario, c’era conflitto, collaborazione, interesse, scontro.
I punti di conflitto erano il separatismo, la rivendicazione di un riconoscimento dei coordinamenti come di “strutture autonome” del sindacato, e la loro apertura a tutte le donne, non solo alle metalmeccaniche.
Quello che avveniva a Genova, avveniva in tutta Italia. Nel 1976 la FLM nazionale aveva organizzato a Fiesole un seminario per sole delegate e lavoratrici che segnò l’avvio del Coordinamento Nazionale Donne FLM.
Quando i Coordinamenti furono formalmente riconosciuti come strutture autonome del sindacato sia a livello nazionale che nelle diverse realtà territoriali, la possibilità di farne parte fu limitata alle metalmeccaniche, anche se riuscimmo a tenere il punto che fosse aperto non solo alle delegate, ma alle lavoratrici e alle compagne dell’apparato tecnico del sindacato.
In quegli anni furono conquistate assemblee retribuite in fabbrica riservate alle sole donne. Le sedi dei Consigli di Fabbrica furono aperte alle riunioni settimanali delle donne nell’orario della mensa, a cui non erano ammessi i delegati maschi. La sede della FLM ospitava le riunioni del venerdì del Coordinamento, a cui i sindacalisti non potevano accedere.
Non era banale, per gli uomini, essere esclusi da questi spazi, e non lo era, per le donne, scoprirsi la forza di esercitare questo discrimine.
La rivendicazione e la conquista di spazi autonomi di pensiero e di elaborazione politica fu la condizione per “vedere”, e per mettere in discussione, alcuni dati generalmente accettati come scontati: il fatto che le donne non prendessero mai la parola in assemblea, che svolgessero solo una ben definita e ristretta gamma di lavori all’interno delle fabbriche, e nello stesso sindacato, dove erano “confinate” nell’apparato tecnico, che si dimostrassero disinteressate alla “carriera”, che molte considerassero “naturale” sobbarcarsi in toto, pur lavorando in fabbrica, la cura della casa e dei figli.
La messa in discussione di questi dati “scontati” implicava però un immenso lavoro di risalita nella catena delle cause, dei meccanismi stessi di costruzione della identità femminile: per aggredirle bisognava ripercorrere a ritroso il lungo cammino attraverso il quale questa subordinazione era stata tramandata di madre in figlia, insieme alle ribellioni, alle intuizioni, alle rotture che hanno costellato tutta la storia delle donne.
Era un processo culturale profondo e difficile che poneva al centro il rapporto tra produzione e riproduzione.
Comportava conflitti che non si esaurivano nell’ambiente di lavoro, ma che mettevano in discussione gli equilibri personali e familiari.
E’ in questo modo che sono nate le “rivendicazioni delle donne”, inserite nelle contrattazioni aziendali e nazionali degli anni ’70: l’elasticità e la riduzione dell’orario di lavoro, il riconoscimento delle competenze informali che venivano largamente utilizzate dalle imprese, ma non valutate e retribuite, l’utilizzo del salario sociale per servizi sul territorio, le visite in fabbrica per la prevenzione dei tumori, la formazione e le modifiche dell’organizzazione del lavoro per rompere la gabbia di mansioni parcellizzate e ripetitive, il dibattito e il conflitto sull’utilizzo, l’accettazione o il rifiuto del part-time.
Ma soprattutto è in questo modo che è iniziato a cambiare lo sguardo delle donne su se stesse. Uno strumento molto importante furono le “150 ore delle donne”, seminari che utilizzavano questo istituto contrattuale e che erano riservati alle donne. Lì trasferimmo la trasversalità che avevamo rivendicato, e perduto nei Coordinamenti. Vi parteciparono moltissime lavoratrici dalle fabbriche, dalla scuola, dal pubblico impiego, oltre che disoccupate, studentesse, casalinghe. I temi furono: ”il territorio delle donne”, “il nostro corpo”, “nascere e far nascere”, “prostituzione, criminalità e devianza”, la famiglia.
Il metodo si basava su gruppi di lavoro auto-gestiti sul territorio, coordinati da alcune conduttrici, e incontri mensili con i docenti universitari, con cui confrontavamo quello che avevamo discusso tra noi. Volevamo superare il “divario tra chi insegna e chi impara”. Nel programma del primo seminario, “Il territorio delle donne” scrivevamo che eravamo mosse “dal bisogno di capire chi siamo, di conoscere la nostra storia, che non è mai stata scritta, di partire da noi stesse per ricostruirne almeno una piccola parte”.
Era un lavoro di politicizzazione che avevamo concepito “a lunga scadenza”, e che invece si svolse, in questi termini, per un breve periodo.
Ma in quel breve periodo ci fu un grande rinnovamento della legislazione italiana: il divorzio, la tutela delle lavoratrici madri, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto, l’abolizione delle classi differenziali nelle scuole, la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi.
Negli stessi anni si stavano affacciando cambiamenti epocali: avanzavano processi di innovazione tecnologica che modificavano alla radice la struttura produttiva e l’organizzazione del lavoro. Ci interrogammo sul rapporto tra donne e tecnica, tra donne e scienza. Ma eravamo ormai alla conclusione di un percorso.
La FLM cessò di esistere alla metà degli anni ’80, il Coordinamento donne nazionale divenne l’unione dei tre separati Coordinamenti donne Fim Fiom Uilm ed ebbe ancora un ruolo nel CCNL del 1989, che introdusse il tema delle molestie sessuali e delle commissioni aziendali e territoriali per le pari opportunità, e che fu caratterizzato da un’esperienza che è restata un unicum: sezioni separate della trattativa nazionale tra donne di Confindustria e donne del sindacato.
In conclusione: le grandi esperienze collettive sono brevi, pugni di anni. Non si può pensare, sperare in una loro durata. Però possono modificare cose profonde, e lasciare tracce.
Per trasmetterne la memoria penso che si debba, con molta leggerezza, senza auto-celebrazioni, mitizzazioni e nostalgie, mettere a disposizione pensieri, informazioni, documenti, suggestioni a chi in molti casi nemmeno conosceremo, e li utilizzerà in modi e tempi che non possiamo immaginare.
Noi, alcune delle donne della FLM, ci abbiamo provato.
Innanzitutto, a partire dal 2000, abbiamo creato un archivio dei documenti, a cui altre donne che non conoscevamo e che non avevano vissuto la nostra esperienza hanno attinto per scrivere, dal loro punto di vista, col loro sguardo, libri o saggi che riguardano quella nostra storia: Non è un gioco da ragazze scritto da Laura Varlese, Giovanna Cereseto ed Anna Frisone, tre giovanissime; Nè partito né marito di Graziella Gaballo; Dai che mi vesto da puttana!: Cultural Representations of Prostitution in Italy, 1955-1990 – tesi di dottorato di Michela Turno presso l’Università di Leicester.
Tra il 2008 e il 2009 abbiamo incontrato alcune giovani donne e con loro abbiamo prima realizzato “Quindici donne raccontano” autonoma sezione della mostra “Ragazze di Fabbrica: immagini, memorie documenti – voci e volti di donne del ponente dal dopoguerra ad oggi”. Da questo lavoro avevamo tratto uno spettacolo teatrale, in cui ci siamo raccontate anche con ironia.
Tra il 2009 e il 2014 abbiamo dato vita agli “Incontri delle quattro stagioni”, gruppo di riflessione formato dalle vecchie donne della FLM e da donne molto, molto più giovani. Abbiamo creato un sito, e abbiamo scritto, anche con alcuni tormenti, il libro Generazioni di donne con le sintesi delle nostre discussioni.
Un ultimo pensiero.
Il contesto in cui si svolsero gli eventi di cui parliamo oggi era quello di un tessuto industriale forte.
A Genova, nel 1976, c’erano 55.000 lavoratori metalmeccanici.
Una nostra compagna, Luciana Gatti, scriveva che le 150 ore delle donne erano nate “quando il movimento sindacale viveva un momento di grande forza in fabbrica, una tale forza e ‘sicurezza’ da permettere di ipotizzare un’uscita dalla fabbrica, una specie di aggressione, da parte del movimento operaio, di tutti i problemi della società”.
Ora questa forza non c’è più. Non possiamo immaginare di riprodurre quella storia. Tutto va reinventato.

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