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Microcritiche / Cronaca familiare tra Usa e Cina

28 Dicembre 2019
di Ghisi Grütter

FAREWELL – UNA BUGIA BUONA – Film di Lulu Wang. Con Awkwafina, Shuzhen Zhao, X Mayo, Tzi Ma, Yang Xuejian, Diana Lin, Becca Khalil, Lu Hong, Yongbo Jiang, Han Chen, Aoi Mizuhara. Musiche Alex Weston –

Farewell” è un film costruito appositamente per sottolineare la differenza tra l’individualismo occidentale vs l’appartenenza comunitaria orientale. La regista cinese Lulu Wang, naturalizzata statunitense, in questo suo secondo lungometraggio, ha voluto raccontare di sé e della propria storia. Non c’è una vera e propria narrazione, c’è prevalentemente la rappresentazione dei rapporti familiari di una famiglia cinese, nonostante la diaspora dei suoi membri. Infatti uno dei figli Wang vive in Giappone l’altro negli Stati Uniti.
Haiyan Wang (Tzi Ma) fa il traduttore vive con sua moglie (Diana Lin) a New York così come sua figlia Billie (Awkwafina), quando vengono a sapere che l’anziana madre di lui Nai-nai (Shuzhen Zhao), rimasta a vivere a Changchun, è malata gravemente: ha un cancro al polmone e le rimangono pochi mesi di vita.
Con il pretesto di partecipare al matrimonio del nipote Hao Hao – il figlio di Haibin Wang, il fratello di lui – tornano in Cina dove li raggiungerà anche Billie molto legata alla nonna paterna con la quale era rimasta per parecchi mesi, prima di lasciare definitivamente la Cina. Billie è anche reduce da una delusione perché le è stata appena negata una borsa di studio della Fondazione Guggenheim ma di cui non ha ancora parlato con nessuno.
Lì in Cina si ricostituisce la famiglia Wang dopo più di vent’anni. Il fratello è rientrato dal Giappone dove è emigrato, proprio per celebrare il matrimonio in Cina. La madre vive con la sorella (Lu Hong), che si è sacrificata tutti questi anni per starle vicina, una badante e uno strano anziano tuttofare, ma non sa nulla della sua malattia. Alla maniera cinese, non le viene detto la natura delle macchie scure nella sua radiografia che persistono dopo aver avuto una infiammazione ai polmoni. Le hanno detto che sono macchie benigne: una bugia buona. Billie, cresciuta in Occidente, non riesce ad accettarlo; negli Stati Uniti, infatti, falsificare i risultati di un’analisi è commettere reato. Come le spiega lo zio Haibin, nella filosofia orientale l’individuo appartiene al gruppo, al sociale, pertanto la famiglia a farsi carico di tutta la preoccupazione, senza comunicarlo alla persona malata. “Non c’è sale che guarisca questo male” dice la madre a Billie.
Il film è un’ibridazione tra commedia e dramma, sul tema dell’inganno. Alterna scene più interessanti ad alcune un po’ più banali in cui si riscontra l’universalità della condizione familiare, almeno in culture mediterranee come la nostra, o quella greca o spagnola.
La mancanza di reali accadimenti rende il film leggermente noioso anche se incuriosisce la parte del matrimonio con le sue tradizioni e i siparietti alla Wes Anderson.
La regista, in diverse interviste, ha spiegato che la storia del film è basata su un vero episodio della sua vita. Lulu Wang, infatti, è nata a Pechino ed ha passato un anno a Changchun con la nonna, prima di trasferirsi a sei anni negli USA con i genitori. Nel 2014 aveva diretto “Posthumos” il suo primo lungometraggio, la storia di un artista squattrinato che si finge morto per approfittare del prestigio postumo: la “bugia buona” era presente già lì.
Belle sono le due figure femminili a confronto. Shuzhen Zhao, l’anziana nonna ex combattente è una neo-attrice che mostra una grande naturalezza nel ruolo, mentre Awkwafina, nata in America, è esperta di parti in commedie brillanti e aspira al Golden Globe per la sua inusuale interpretazione drammatica.
È raro vedere sullo schermo una realtà urbana – con un ottimo servizio sanitario veloce ed efficiente peraltro – che non sia Pechino: Changchun è una città di sette milioni e mezzo di abitanti, in una vasta pianura ed è considerata la “Città della primavera del paese settentrionale”, diventando anche meta turistica. Gli edifici mostrati nel film sono o casermoni tutti uguali di una ventina di piani di altezza o fabbricati rossi a 5 o 6 piani, ed è lì che abitano i Wang.
Inusuale è anche la rappresentazione della vita di una famiglia cinese esponente della middle class. Infatti, i film cinesi più recenti ci avevano abituato alla rappresentazione di realtà contadine o operaie. Penso, in particolare, a due pregevolissimi film entrambi del 2015: “Al di là delle montagne” di Jia Zhang-ke e “Fuochi d’artificio in pieno giorno” di Yinan Diao che mostrano i luoghi operai della Cina, da un lato la città di Fenyang, una piccola città di provincia nello Shanxi, e dall’altro i quartieri/città nati attorno alle miniere di carbone sempre nel poco noto nord della Cina.
Ciò che a me convince poco è che anche qui, come in molti altri film dove sono messe a confronto due culture una moderna e l’altra tradizionale, è sempre il conservatorismo dell’antico ad avere la meglio

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