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Microcritiche / Se la mamma è un’attrice-monumento

25 Ottobre 2019
di Ghisi Grütter

LE VERITÀ – Film di Hirokazu Kore-eda. Con Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Clémentine Grenier, Manon Clavel, Alain Libolt, Ludivine Sagnier, Van Hool, Christian Crahay, Francia 2019

Il film “Le verità” costituisce una sorta di monumento a Catherine Deneuve, che ne fa un pezzo di bravura. La tematica del narcisismo dell’attore, in questo caso attrice, non è certo un soggetto originale, a partire da “Viale del Tramonto”, di Billy Wilder con Gloria Swanson del 1951, che è stato fonte di ispirazione di tanti altri.
Kore-eda qui tratta da un lato il mondo del cinema – dove le serie TV sono considerate per attori meno bravi – dall’altra il mondo famigliare, un tema caro al regista, ma per la prima volta trasposto in Europa. La trasposizione sarebbe anche riuscita se non fosse per la troppa verbosità, per l’eccessiva lunghezza e per l’happy end. Una bozza di racconto il regista giapponese lo aveva già scritto molti anni fa, si svolgeva tutto in un camerino, ma solo ora lo ha sviluppato in una sceneggiatura.
Ma vediamo la storia. Fabienne (Catherine Deneuve appunto) è un’attrice settantenne, che ha appena pubblicato una sua autobiografia. Vive in una villa immersa nel verde – “sembra un castello ma dietro nasconde una prigione” – a Parigi con il suo cagnolino, con l’ultimo dei suoi amanti che ha l’hobby della cucina italiana, e con il suo fidato assistente.
La figlia Lumir (Juliette Biniche) vive a New York con il marito Hank, un attore ex etilista, e Charlotte, una bella bambina bionda, e torna nella casa di famiglia dopo tanti anni, proprio per la pubblicazione del libro. La biografia narrata nel libro però è un insieme di falsità: Fabienne dichiara un marito morto, e narra di aver coccolato una figlia da piccola, accompagnandola tutti i giorni a scuola, cosa ovviamente mai successa, e tante altre invenzioni. Lumir, naturalmente, rimane malissimo, anche perché, essendo lei la scrittrice di casa, avrebbe voluto leggerla prima della pubblicazione.
Fabienne ogni tanto si finge smemorata – divertente è la sua intervista iniziale dove riprende il giornalista – confonde i funerali delle colleghe, ma sembra comunque avere una grande autostima di se stessa. Non tratta troppo bene le persone che le sono vicine, è dura, decisa, non particolarmente gratificante: non chiede mai scusa quando sbaglia, ma la sua personalità magnetica fa sì che abbia ancora una sua “corte”.
Le figure maschili del film sono tratteggiate come figure secondarie, di sfondo: il marito, a parte un’abilità manuale, pare non possedesse altro e si fa vivo solo ogni volta che ha bisogno di soldi. Il genero Hank (un poco sfruttato Ethan Hawke) è un debole che non riesce a sfondare come attore e il cui sogno è di avere una parte da protagonista, almeno in una serie televisiva. I suoi unici pregi sono quelli di avere un bel rapporto fisico con la figlia e tanta pazienza con la moglie.
Meno convincente della madre è Juliette Binoche, sia come personaggio, sia come recitazione un po’ sopra le righe, tutta smorfiette.
C’è anche un convitato di pietra, anzi una convitata: Sara. Non la si vede mai ma la sua presenza inquietante è continuamente evocata specialmente dalla Lumir. Sara è stata un’attrice molto brava, amica e rivale di Fabienne, una persona che è stata presente anche nella vita di Lumir bambina. Fabienne anni prima le rubò una parte (andò a letto con il regista appositamente), con la quale vinse un remio César e subito dopo Sara morì in un incidente ancora giovane (o fu suicidio?). Qualcuno ha voluto vedere nella figura di Sara, un omaggio a Françoise D’Orleac, la splendida sorella di Catherine Deneuve, attrice anch’essa (l’hostess della “La calda amante” di François Truffault del 1964) e promessa del cinema francese, morta a venticinque anni in un incidente automobilistico.
Il tema centrale del film comunque è il rapporto tra madre e figlia, sia nella storia di Fabienne e Lumir, sia nel film che Fabienne sta interpretando in cui la madre, affetta da una misteriosa malattia, si rifugia in un’astronave dove non invecchia mai, mentre ogni 7 anni incontra la figlia che invece mostra i segni del tempo: infatti la sua parte è interpretata da attrici diverse. Il fatto inquietante è che l’attrice che l’interpreta sembra una reincarnazione di Sara, lo stesso suo talento e la stessa sua voce roca e sensuale.
Hirokazu Kore-eda – indimenticabile autore di “Father and Son” del 2013 e di “Un affare di famiglia” del 2018 – con questo film confeziona un omaggio al cinema francese, con molte citazioni come, ad esempio, il vestitino nero usato dalla stessa Catherine Deneuve in “Belle de Jour” di Luis Buñuel del 1967. Lui però sembra non mostrarsi, rimanere fuori scena, non raggiungendo in tal modo i livelli della sua precedente filmografia.

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