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Microcritiche / Almodòvar, nostalgia della trasgressione

3 Giugno 2019
di Ghisi Grütter

DOLOR Y GLORIA – Film di Pedro Almodòvar. Con Antonio Banderas, Asier Etxeandia, Penelope Cruz, Nora Navas, Leonardo Sbaraglia, Asier Flores, Cecilia Roth, Raul Arévalo, Julieta Serrano, César Vincente. Fotografia di Josaé Luis Alcaine, musiche di Alberto Iglesias –

Francamente non riesco a condividere pienamente il grande entusiasmo con il quale è stato accolto l’ultimo film di Pedro Almodòvar, con l’esclusione di Natalia Aspesi che, cattivissima, così scrive: «Due buone parole per Almodòvar, perché non puoi ferire i bisognosi di cure mediche e psichiatriche…».
Ma non è tanto nella storia-confessione che ricorda, dove sono ricucite insieme parti di vita dello stesso autore, ma è proprio nel modo di fare cinema di Amodòvar che il film mi ha convinto poco. Infatti, “Dolor y Gloria” è un film molto statico che sembra quasi una sommatoria di fotogrammi. Questa modalità, che mi sta bene in Wes Anderson (“I Tenenbau” del 2001) che è uno sperimentatore di generi, mi va meno bene in Almodòvar, specialmente in questo film che è sostanzialmente un monologo sulla sua vita (o una lunga seduta di psicoanalisi, scrive qualcuno). Il tono del film è melanconico e poetico, però proprio per la sua staticità un pochino noioso e, onestamente, una tac in meno gli avrebbe giovato.
Salvador Mallo (una specie di anagramma), alter-ego di Almodòvar nel film, è un regista sulla soglia della sessantina in depressione e in crisi creativa. Non riesce più a scrivere sceneggiature né tantomeno a girare delle riprese, riesce solo a scrivere brevemente di sé, più come sfogo con se stesso che come proposta inventiva. Sta quasi sempre in casa, esce pochissimo, evita gli incontri mondani e rifiuta gli inviti. L’unica persona che sente e vede regolarmente è la sua manager Mercedes (Nora Navas), che si prende cura di lui. Pieno di acciacchi fisici, veri o presunti, passa da un medico all’altro, accompagnato dall’accudente manager, che gli prescrivono tutta una serie variegata di medicine. Ma chi di noi che ha superato i sessant’anni non ne prende tutta una serie giornaliera?
Salvador sente una grande nostalgia degli anni ’80 del secolo scorso, di un’epoca post franchista dove la gioia della libertà – e il piacere della trasgressione – erano diventati la sua ridondante cifra stilistica. La cineteca ha acquisito “Sabor” il suo vecchio film di successo di trent’anni prima: lui lo rivede e gli piace di più oggi che allora. Lo invitano a presentarlo insieme all’attore principale Alberto Crespo (uno splendido Asier Etxeandia) che Salvador si mette a ricercare dopo così tanti anni e molte aspre critiche. Dal loro incontro in poi, Salvator inizia un uso di droghe pesanti, eroina fumata, dopo che per anni aveva sempre lottato contro la droga, cercando anche di salvare dalla dipendenza Fernando, il suo grande amore della vita, amato e perduto trent’anni prima.
Così tra una fumata e una sbobba di medicine mischiate, contro i “mali astratti” e quelli concreti, il film presenta tutta una serie di flashback che riguardano la sua infanzia, il rapporto quasi morboso con la madre Jacinta, e l’assenza del padre.
Al film non manca nulla: gli attori sono tutti eccezionali a cominciare dalla immancabile Penelope Cruz, musa dei suoi film, allo stesso Banderas di cui la critica segnala la sua migliore interpretazione. La fotografia è molto bella. I luoghi sono tutti interni – a parte la prima scena del bucato nel fiume – e la grotta ( i “sassi” di Paterna vicino Valencia) sembra essere un “utero materno”, con il delizioso rivestimento di scampoli di maioliche che Eduardo (César Vincente), il giovane muratore-artista, inserisce come collage della propria storia. Eduardo piace molto a Salvador (forse anche a sua madre…) che gli insegna a leggere e a scrivere, lo definisce come il suo primo desiderio sessuale, in un età in cui non c’è stato ancora lo scoppio degli ormoni, ma sono presenti i primi turbamenti.
Lo stravagante appartamento in cui vive Salvador è la fedele ricostruzione della casa del regista, con quadri ad altezza d’uomo nell’ingresso, e colori forti molto “spagnoli”. Più discutibili sono le scelte di vestiario, ma è proprio così che si veste il regista, e poco credibili sono i vestiti a fiorellini e le espadrillas della Cruz che, poverissima, deve andare a cucire la domenica per arrotondare lo stipendio.
Il pezzo più bello del film, a mio avviso, è l’interpretazione teatrale one-man-show di Alberto nel teatrino off, dove recita il testo – un’auto-fiction letteraria – scritto da Salvador Mello, che vuole invece restare anonimo. Lì è perfetto perché è proprio teatro, giustamente bidimensionale, e l‘attore il più del tempo è immobile, seduto su una sedia con uno schermo dietro. È l’unica parte in cui non c’è l’onnipresente volto stralunato in primo piano di Antonio Banderas, con cui ha vinto il premio a Cannes 2019. Il ruolo di Mercedes, raccontata come una sorta di vestale, è quello che invece mi è piaciuto meno, troppo poco messo in evidenza, forse una donna che né Salvador né Pedro vedono a tutto tondo.
Il film si conclude con una rinascita creativa che fa sperare i critici ed entusiasmare i più appassionati del regista spagnolo.

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