Per fortuna ogni tanto si riesce a godere della buona musica, cosa molto consolante e anche emozionante specialmente se si ascoltano composizioni – e esecutori/esecutrici – che non si conoscevano.
Mi è capitato per ben due volte nei giorni scorsi grazie alle iniziative che ogni anno a Roma l’Università (dipartimenti di filosofia e comunicazione e di scienze della formazione di Roma Tre) da un lato e la Scuola Popolare di Musica del Testaccio dall’altro assumono per fare sempre più luce sull’arte di compositrici, antiche e moderne, che una tradizione (maschile) dura a morire ha relegato in un cono d’ombra.
Mi è venuta in mente una singolare osservazione del grande musicologo Charles Rosen, che aprendo il suo massiccio volume sulla “generazione romantica” sente a un certo punto il bisogno di ricordare quanto fu drastica la rimozione dalla storia della musica di artiste di grande valore (valgano per tutte Clara Wieck, moglie di Schumann, e Fanny Mendelssohn, sorella di Felix, ma l’elenco potrebbe essere ben lungo), per argomentare poi che l’ingiustizia ha anche determinato il fatto che il loro valore artistico è stato compresso nella creatività. Quindi non è il caso di riparlarne….
Così è stata anche per me una scoperta il Quintetto (n.1, op. 30) composto nel 1840 – sono gli anni dei capolavori pianistici di Schumann, per esempio – da Luoise Dumont Farrenc, musicista che con questa composizione, ho letto, si guadagnò la parità di stipendio (con i colleghi maschi) al Conservatorio di Parigi. Lei, figlia d’arte e fortunata per il suo tempo, era conosciuta come interprete, autrice e didatta. Ma è davvero raro sentirla eseguire nei programmi dei concerti. Non posso giudicarmi un esperto, ma il suo Quintetto non mi è sembrato inferiore a opere assai più conosciute dei suoi coetanei compositori maschi.
Merito, credo, anche della bravura del Quintetto Bottesini (pianoforte, violino, viola, violoncello e contrabbasso): la stessa formazione del famoso “La trota” di Schubert. Non per caso una trota è ricomparsa – nel titolo di un tempo lento “lunare” e in stile blues – nel secondo Quintetto eseguito dal Bottesini al teatro Palladium, nel concerto al termine di una giornata di studio su varie figure di compositrici. Questa volta la musica era della americana Ellen Taaffe Zwilich: un’opera scritta nel 2010.
Atmosfera del tutto diversa, ma piena di fascino, nell’ultimo di altri tre concerti dati nella sede della scuola di Testaccio. Una piccola intensa rassegna che ha spaziato dal classico al jazz (da Clara Wieck a Nina Simone, per intenderci) per giungere alle suite per clavicembalo di Elisabeth Claude Jacquet de la Guerre. Una delle pochissime compositrici molto riconosciute in vita, ai tempi del Re Sole a Parigi: con il favore del re e delle suo coltissime amanti (prima la Montespan, poi la de Maintenon) era definita “la più importante musicista donna del mondo” e “la meraviglia del nostro secolo”. Ma poi è stata dimenticata anche lei. Intorno al 1685 ( mentre nascevano Bach, Haendel e Domenico Scarlatti) pubblicava i suoi “pezzi per clavicembalo” che non mi pare abbiano molto da invidiare alle coeve opere del grande Couperin. Li ha eseguiti la bravissima Elisabetta Guglielmin, che ha recentemente pubblicato un album con le opere dell’altra Elisabetta. Ascoltare un clavicembalo in un locale non troppo grande, così ben suonato, tra suggestioni di liuto, chitarra e organo, fa dimenticare per un po’ di tempo che viviamo in un mondo dove governano i Salvini. E forse ci aiuta a pensare che altri mondi sono davvero possibili.
(Grazie alle donne e uomini che hanno organizzato queste occasioni: ne ricordo solo alcuni/e: Orietta Caianiello, Francesca Pellegrini, Milena Gammaitoni, Luca Aversano)