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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

In una parola / Abbiamo bisogno di eroi?

29 Marzo 2019
di Alberto Leiss

Charles Laughton nella Vita di Galileo di Brecht

Pubblicato sul manifesto il 26 marzo 2019 –

Mi ha impressionato la vicenda di Lorenzo Orsetti, il giovane che combatteva dalla parte dei Curdi, ucciso dai miliziani dell’Isis a pochi giorni dalla sconfitta (quanto definitiva?) dello “Stato Islamico”.
Ho due figli poco più grandi del trentatreenne Lorenzo, appassionati della giustizia, e penso a cosa farei se mi comunicassero una scelta come la sua. Cercherei in ogni modo di dissuaderli, come mi pare abbia raccontato anche il padre del ragazzo, con il semplice argomento: c’è tanto da fare qui da noi per una società più giusta… E non dico del dolore del perdere un figlio, che immagino sia la cosa peggiore che possa accaderci.
La storia tragica di Orsetti, come molte altre in un tempo di cambiamenti profondi in direzioni diverse e spesso opposte, ha dato luogo a un discorso pubblico discordante. Giuliano Ferrara ha proposto – con i suoi modi provocatori – una “medaglia d’oro alla Resistenza in memoria” del ragazzo, paragonandone la morte da un lato a quella di Fabrizio Quattrocchi, (che gridò ai suoi assassini iracheni “vi faccio vedere come muore un italiano”) dall’altro a figure della resistenza antifascista come Eugenio Colorni e Eugenio Curiel, uccisi dai nazifascisti alla vigilia della Liberazione. Un altro giornalista di destra, Vittorio Feltri, ha liquidato grevemente il caso, definendo Orsetti un “ganassa” che aveva scelto avventatamente di andare in guerra, dove la logica è quella del “chi di cecchino ferisce, di cecchino perisce”. Forse un’allusione alla testimonianza resa al Corriere della Sera dal fotoreporter Gabriele Micalizzi, che aveva conosciuto Lorenzo prima di essere a sua volta ferito: «Mi diceva: se esco vivo, m’iscrivo all’accademia militare dell’Sdf (le forze democratiche siriane che combattono l’Isis, ndr) e divento cecchino». Ma secondo altri, invece, cominciava a essere stanco e a desiderare di tornare a casa.
Il presidente della Regione Toscana Rossi ha reso omaggio al giovane fiorentino – come anche l’Anpi – lodando il suo impegno a fianco dei Curdi, di cui Orsetti apprezzava i programmi sociali democratici, socialisti, ambientalisti e femministi. La famiglia vorrebbe un sostegno più pieno dalle istituzioni nazionali, ora che si prevede anche il rientro in Italia del corpo.
Ma c’è anche imbarazzo: a Torino per altri ragazzi italiani anarchici, reduci dall’impegno militante nel Rojava, Digos e Procura richiedono una “sorveglianza speciale”. La PM Manuela Pedrotta ha sentito il bisogno di dichiarare che Orsetti – che aveva apertamente solidarizzato con i suoi compagni torinesi – non avrebbe avuto lo stesso trattamento poiché non aveva “precedenti penali”.
Retoriche e strumentalizzazioni diverse dovrebbero fare spazio al semplice rispetto e alla solidarietà con il dolore della famiglia.
Resta però l’interrogativo aperto dal suo stesso “testamento”, senza incertezze sulla giustezza della propria scelta, e la convinzione di essersene andato “con il sorriso sulle labbra”.
Parole toccanti: ma è davvero “bella” la morte per una giusta causa?
Io credo di no. Il rispetto non mi impedisce di dichiararlo: non è bello morire per la patria come per qualunque altro nobilissimo e rivoluzionario motivo.
Naturalmente vengono in mente le parole del Galileo di Brecht, che dopo aver pronunciato l’abiura che gli salva la vita, e di fronte al giovanissimo Andrea Sarti che lo insulta e grida “sventurata la terra che non ha eroi”, risponde: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.
Reagire alla violenza con la violenza forse a volte è necessario. Ma non dovrebbe mai piacerci.

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