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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Di uomini e di fantasmi

21 Marzo 2019
di Monica Luongo

Il nuovo numero della rivista Leggendaria (http://leggendaria.it ) è dedicato alla rabbia maschile. Pubblichiamo qui un articolo dedicato a due scrittori famosi che raccontano del rapporto con la propria sessualità.

“C’è un racconto diffuso della fragilità del maschio, che vuole essere in sintonia con la contemporaneità, certo, ma è soprattutto un tentativo di compiacere le donne che leggono”. Così Francesco Piccolo verso la fine del suo L’animale che mi porto dentro, ritratto senza infingimenti di se stesso e del suo percorso di identità di maschio alfa.

Non ha paura l’autore di raccontare come sin dall’infanzia si sia trovato nella condizione di dover mediare tra tratti di personalità in evoluzione che comprendevano lo studio, la lettura, l’amore (decisivi gli innamoramenti non sempre andati a buon fine dell’adolescenza)  e altri caratterizzati da pulsioni sessuali incontenibili e scatti di violenza altrettanto poco gestibili. In breve: Piccolo (già sceneggiatore, autore, vincitore del Premio Strega, marito e padre) inizia il suo cammino con passo di gambero, dal giorno in cui la moglie si convince a seguirlo a Helsinki in occasione di un convegno, che si trasforma in una discussione serrata: la moglie non ne vuole sapere più di ascoltare il marito, lui lamenta che lei si muove per la casa appena lui inizia a parlare: eh già – dice lei che ormai ha fatto pace con un pezzo di mondo, il suo – ora che è famoso è proprio diventato “sto cazzo” (sic), epiteto che ritorna spesso nel libro e che porta Piccolo a un notevole sforzo nel raccontare chi è davvero e come è diventato l’uomo che è oggi.

L’infanzia (anni Sessanta) la trascorre a Caserta, scarso rendimento scolastico, una passione per il basket, l’estate trascorsa a Baia Domizia – nota ai campani per essere stata una delle prime aree residenziali di vacanza, frutto dei peggiori abusi edilizi della costa tirrenica – dove la sera uomini grandi giovani e piccini si riuniscono di fronte al cancello del Villaggio Svedese, da cui escono donne bionde slanciate dalla pelle abbronzata. Una specie di addestramento da nave scuola, gli anziani ai più piccoli, fatto di oscenità, fantasie sfrenate e tanto, tanto guardare. E poi il basket, dove Piccolo si accorge di non riuscire a gestire attacchi violenti di rabbia, incontrollati, che lo portano a picchiare arbitri in campo, sfasciare armadietti negli spogliatoi, e infrangere il castigo inflittogli dal padre, scavalcando  ogni giorno la finestra della sua stanza per fuggire di nuovo ad allenarsi. Una madre silente, un padre che ogni sera, sistematicamente lo picchia con la cinghia e lui che altrettanto sistematicamente si copre il volto e prende quei calci nei fianchi come una routine. Li rivedrà poi da adulto, quando racconta senza addolcire la cronaca che la sua casa mostra i segni di porte spaccate e telefoni rotti contro il muro, dei figli che gli scrivono per dire che hanno paura quando lui è così. Come dalla citazione iniziale, Piccolo non vuole addolcire le donne con una storia da traumi infantili, cerca a mio parere di leggere chiaro dentro di sé e raccontarti anche di lui, il personaggio pubblico. Capace di controllarsi sempre o quasi, incapace di non fantasticare sulle gambe accavallate della viaggiatrice nel treno, il sesso consumato in fretta con la fan conosciuta alla presentazione di uno dei suoi libri, fino a episodi di cui si vergogna ma che non può tacere. Ancora, il rapporto con il suo culo, con la paura e il desiderio dell’analità, le sue emorroidi prese in cura da una proctologa che gli spiega con parole chiare il perché della sua presunta omofobia. Fuori e dentro dal sé c’è il controllo sociale: “Non sono mai solo, nemmeno insieme al mio animale, io e lui a vedercela, uno contro l’altro. Non sono mai riuscito a stare solo, sono sempre circondato dai fantasmi di tutti i maschi che mi hanno girato intorno. E non se ne sono mai andati […] Dentro di me continuerò sempre a chiedermi: siete contenti di me?”. 

Un uomo dunque, un solo corpo in cui convivono umano e animale, capace di amore e di miserie, tanto che il nostro si paragona a Nino Sarratore (“Nino Sarratore sono io”), uno dei protagonisti chiave della tetralogia di Elena Ferrante, innamorato e molestatore, meschino e di buon cuore. Armato del dolore, unica spada capace di mettere a tacere la bestia, proprio come Piccolo ha imparato a interpretare guardando i film degli anni Settanta con Laura Antonelli, giocati sul desiderio, il ricatto, la punizione, l’amore taciuto e ovviamente il sesso liberatorio.

Pulsioni, intellettualità, una età matura che chiede agli uomini (alcuni uomini) di domandare a se stessi dove e in che modo sono arrivati lungo il cammino della vita. Una operazione simile nell’intenzione ma non nello stile è quella compiuta da un altro Premio Strega, Edoardo Albinati, con il monumentale La scuola cattolica. Nato nel 1956, lo scrittore – che insegna italiano nel carcere di Rebibbia – ricostruisce attraverso la storia personale quella della sua generazione, bambini negli anni Sessanta, giovani nei Settanta (era con i suoi amici a manifestare sul ponte Garibaldi a Roma quando fu uccisa Giorgiana Masi). Ragazzi colti di buona famiglia, educati in una delle scuola cattoliche più famose della capitale, abituati al cameratismo da palestra, dove chi dice “frocio” per primo si salva dall’essere additato come tale dagli altri. E tra quegli altri ci sono anche i tre assassini del delitto del Circeo, da cui parte il romanzo di Albinati, oltre mille pagine, che si allarga a dismisura, inglobando nel suo ego e nel suo inconscio l’educazione sentimentale, politica e cameratesca di quegli anni, il sesso (sempre presente, anche qui narrato con linguaggio sincero e spregiudicato), la borghesia, i fascisti e i quelli di sinistra.

Cosa erano e cosa sono diventati oggi questi uomini, soggetti privati e figure pubbliche? Questo l’interrogativo che lega Piccolo e Albinati. Ciò che mi piace sottolineare è, pur nelle differenze, la cifra stilistica. Ci vuole coraggio per parlare di sé così schiettamente – le donne si sa, hanno iniziato molto prima, ho spesso pensato durante la lettura dei due volumi a I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy – e riconoscere prima individualmente il dissidio delle pulsioni maschili prima di ritrovarle nella comunità in cui si vive e si è cresciuti. Il linguaggio di Piccolo e Albinati non è infine un mero scimmiottare del linguaggio femminil-femminista: non ci sono corpi eteronormati, biomaschi e cis-gender (che spesso caratterizzano le scritture del femminismo, e che leggo malvolentieri quando in appalto del pensiero maschile). I due scrittori, direbbero a Roma, parlano come mangiano. E come ragionano l’uomo e l’animale che si portano dentro. 

Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli, 1.294 pagine, 22 euro, ebook 9,99 euro.

Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro, Einaudi, 232 pagine, 19,50 euro, ebook 9,90 euro.

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