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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Accogliere, convivere. Si può fare

20 Gennaio 2019
di Letizia Paolozzi

Forse nel governo giallo-verde qualcosa di buono c’è: il suo essere riuscito, senza volerlo e con metodi sgangherati, a rompere l’apatia, la crosta dell’abitudine, della remissività.
In effetti, comincia a sgretolarsi quel codice di comportamento un po’ distratto e un po’ cinico secondo il quale esageri a dire che “il fascismo è alle porte”. Contemporaneamente diminuisce il grado di tolleranza addirittura sbalorditivo di fronte a un Parlamento che ha votato senza poter discutere la legge di Bilancio. Oggi diventa meno “normale” assistere alle esternazioni del ministro degli Interni e della Giustizia in occasione dell’arrivo di Cesare Battisti in Italia; alla battuta sempre del ministro degli Interni dopo la morte del giovane tunisino durante un fermo di polizia.
L’aria sta cambiando anche se lo sciopero generale della Tunisia, il sabato (X atto) di tempesta sociale in Francia, le dimostrazioni di Belgrado sono un’altra cosa. Altra cosa dall’Italia dove la crisi di fiducia continua a mietere vittime: dai politici ai partiti, dalle istituzioni ai singoli: medici, controllori Atac, vigili urbani, cadono sotto i colpi della delegittimazione. Dove il deperimento della scena pubblica prosegue da anni.
Ora sembra materializzarsi qualche sussulto di contropotere, qualche rivendicazione di una politica differente, di luoghi dove discutere per cambiare rotta.
Come è avvenuto nella Napoli tutta azzurra di un giorno assolato quando le associazioni “L’Arte della felicità-il Centro”, “Maestri di strada”, “Officine Gomitoli”, la cooperativa sociale “Dedalus”, “Sfruttazero” di Nardò, il consorzio “Il sale della terra” di Benevento, la fondazione di Comunità “San Gennaro” (Sanità), i “Dialoghi del lunedì” e il gruppo “4 ottobre” hanno detto : “Si può fare. L’Italia che piace: 5 storie di buona accoglienza”.
Già. Perché l’accoglienza riguarda chi qui arriva da terre lontane. E va nominata descrivendo i diversi soggetti a cui sta a cuore, tenendo conto che se ne assumono la responsabilità a livello simbolico e materiale quanti ne usufruiscono (con la loro soggettività e la loro storia) e quanti la praticano (sindaci, istituzioni, associazioni, cittadini).
Si da il caso che siano stati proprio tre sindaci: Raimondo Ambrosino di Procida (10.465 abitanti), Stefano Calabrò di Sant’Alessio in Aspromonte (345 abitanti), Marisa Varvello di Chiusano d’Asti (215 abitanti) a mettere a nudo difficoltà, inciampi, ma anche la meravigliosa sorpresa per azioni efficaci compiute in un modo di procedere efficente, naturale e soprattutto umano.
Nonostante il clima “di forte sfiducia”. Per la prima volta, quest’anno nell’hinterland napoletano la proprietaria di un appartamento ha dichiarato di non voler affittare alle donne nere mentre, a Napoli, il corteo di solidarietà per il pizzaiolo Gino Sorbillo ha raccolto cinquanta persone.
Ma le cause della sfiducia vanno ricercate e ascoltate. Solo dopo vanno smontate perché “la presenza dei rifugiati non porta danno”. D’altronde, questi rifugiati spesso non hanno in testa di restare a Procida o a Napoli. Piuttosto, rincorrono opportunità di lavoro e di ricongiungimento famigliare; vogliono trasferirsi al Nord.
La paura nei loro confronti dipende dalla percezione più che dai dati di realtà (l’incontro di Napoli è stato accompagnato da una interessante pubblicazione: “L’immigrazione e la sua percezione tra realtà, rappresentazioni e leggende” a cura di Elena De Filippo, docente di sociologia delle migrazioni, Andrea Morniroli esperto di politiche del welfare con un contributo di Livio Pepino).
Le ondate di razzismo dipendono anche dal colore della pelle. A Napoli, nei dintorni della Stazione centrale hai paura dei tanti senegalesi, ciadiani, sudanesi. A Roma, se ti muovi nel quartiere di Piazza Vittorio, incontri solo cinesi e cammini tranquilla. “Quando arrivano quelli?” hanno chiesto gli abitanti dell’isola al sindaco di Procida. Non si erano accorti che i rifugiati erano già “accasati” nell’isola.
I rifugiati e i richiedenti asilo sono – o meglio erano – coinvolti nel progetto Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati), modello di distribuzione sul territorio quando applicato “con trasparenza e umanità”. Dopo l’approvazione dl decreto in/Sicurezza il progetto è praticamente morto. Così, prevede la sindaca di Chiusano, “avremo degli invisibili” ai quali sarà impossibile usare la sanità pubblica, iscrivere i figli a scuola, affittare una casa. Meno le persone sono integrate, più vengono rigettate nell’ombra, ricattabili, costrette a arrangiarsi.
Al contrario, lo Sprar aveva dimostrato che attivarsi senza pregiudizi porta dei vantaggi. Le aree interne di Sant’Alessio che si erano svuotate, si sono ripopolate. Attraverso un avviso pubblico, le istituzioni hanno censito e recuperato i vecchi ruderi invece di cederli alla cementificazione. La scuola, per mancanza di alunni, minacciava di chiudere. “Quei venti bambini che giocano con i nostri figli, la tengono aperta”. Italiani e rifugiati hanno festeggiato insieme il Natale. Nel laboratorio si ricicla la plastica per i lampadari. Un medico, tornato dall’Africa, fa la Moc per gli anziani e chi ne ha bisogno.
La sindaca di Chiusano racconta delle strade che sono poche e del territorio che va messo in sicurezza. I cantonieri hanno spiegato il lavoro e lavorato con i rifugiati. “Niente di eccezionale se non applicare ciò che c’era nello Sprar”. A Monale, un paese vicino, le donne uscite dallo sfruttamento sessuale, fabbricano servizi di piatti in ceramica (Terredimonale.it) spediti nel mondo.
Accogliere gli immigrati senza scassare la vita di chi qui ci vive da sempre. Operare una contaminazione, uno scambio. Ci provano i sindaci, ci provano le associazioni.
La cooperativa Dedalus (che opera a Napoli orientale) gestisce tre piccoli appartamenti. Lì vivono, si formano, lavorano donne sottratte alla tratta. “Non vanno considerate delle vittime ma delle sopravvissute che insieme fanno comunità”. A Mondragone, per una prestazione sessuale, prendevano cinque euro. Ora, nel percorso di accoglienza, diventano protagoniste.
Un altro esempio di convivenza, strumenti per inceppare il meccanismo della speculazione e dell’abuso, si chiamano Diritti a Sud di Nardò.LE e Solidaria di Bari che riuniscono “persone libere, uomini e donne, italiani e stranieri, etero e omosessuali” per la produzione della passata di pomodori Sfruttazero (3275306166 per ordini e prenotazioni).
Nel 2015 nelle campagne di Nardò, mentre raccoglie i pomodori muore Mohammed Abdulla. Sempre nel 2015 Paola Clemente, che lavora all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria, cade a terra stremata.
E’ possibile “ribellarsi allo sfruttamento e alla filiera sporca fatta di multinazionali, prezzi troppo bassi, contratti inesistenti, turni massacranti, condizioni di vita indegne”?
Sfruttazero ci prova. E ci provano insieme francesi, ciadiani, italiani, sudanesi, tedeschi arrivati da tante parti, decisi a diventare contadini. Esclusa la grande distribuzione, hanno optato per la rete nazionale Fuori Mercato e tenuto a battesimo una cassa di mutuo soccorso in sostegno delle rivendicazioni dei e delle migranti che vivono nei ghetti dell’Italia del Sud.
Durante l’incontro, Cesare Moreno (presidente dell’associazione Maestri di Strada ONLUS) ha osservato che “le prediche non servono a niente, servono le pratiche” e la narrazione delle pratiche è un primo passo per dire no alla chiusura verso gli altri. Al cinema Modernissimo di Napoli semplici cittadini (se volete, società civile o ceto medio riflessivo) hanno scommesso sull’impegno nella società e in rete attraverso un percorso che dall’incontro di gennaio li condurrà alla “festa delle persone libere” poco prima delle europee. Come hanno ripetuto Francesco La Monica e Luciano Stella (dell’associazione “Dialoghi del lunedì”) intanto dobbiamo incontrarci, confrontarci. L’importante è non perdere “il vizio della Speranza”.

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