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Microcritiche/ Freddie Mercury “redento” e rinnegato

20 Dicembre 2018
di Letizia Paolozzi

BOHEMIAN RHAPSODY – Film di Bryan Singer (ultime riprese di Dexter Fletcher). Con Rami Malek, Lucy Boyton 20th Century Fox 2018-

“Bohemian Rhapsody” è un biopic (così si chiamano le biografie cinematografiche di personaggi realmente vissuti) su Freddie Mercury, cantautore e musicista dei Queen.
Il film inizia nel 1970: a Feltham, sobborgo di Londra, nella casa dei genitori del ragazzo. Figlio d’immigrati zoroastriani di Zanzibar, famiglia di etnia Parsi proveniente da uno stato dell’India occidentale, Farroukh Bulsara (non ancora Freddie Mercury) lavora come facchino a Heatrow.
Per nascita, ha quattro incisivi anomali. In più, una voce e dei vocalizzi incredibili. Grazie a questa dote, diventerà il frontman del gruppo composto da Brian May e Roger Taylor (John Deacon arriverà più tardi), da lui stesso battezzato I Queen.
Rapida carrellata all’inseguimento di tour favolosi tra il ’73 e il ’78 per arrivare al concerto Live Aid organizzato da Bob Geldorf nello stadio di Wembley (13 luglio 1985).
In mezzo c’è “Bohemian Rapsody”, il brano di sei minuti (per la precisione 5,55) che, secondo gli esperti (ma anche gli esperti sbagliano) nessuna radio avrebbe mai voluto trasmettere. Intanto, si accumulano i segni di riconoscimento del gruppo: i riff (refrain) di May, la mezza asta del microfono roteante in mano a Mercury per il quale Mary Austin è “la persona più importante della sua vita”. Amore più spirituale che fisico. Dopodiché “io sono bisessuale” verrà spinto dal manager Paul Prenter a prendere una cattiva strada.
Grande contrarietà del resto della band per il suo stile di vita. Lite dei Queen, buoni padri e buoni mariti. In vista del Live Aid, ricucitura della band. Fine delle frequentazioni gay. Il cantante abbandona promiscuità sessuale, orge e cocaina. Sarà monogamico e fedele a un solo uomo fino alla morte per Aids, avvenuta nel 1991.
Questo racconta il film. La scenografia concede qualcosa all’ambientazione queer, sventolando emblemi lgbt. Dalle giacche militari con le spalline maxi ciondolanti di frange ai pantaloni aderenti bianchi (David Bowie aveva detto: “Ovviamente mi sono sempre piaciuti gli uomini in collant”) ai baffetti del genere Clark Gable. Tuttavia, di Freddie Mercury eccentrico, teatrale, interpretato da Rami Malek, copia sputata dell’originale, candidato ai Golden Globe come migliore attore in un film drammatico, rimane poco.
E quasi nulla dell’audacia insita nelle esibizioni, dell’esplicito obbligo contratto dal cantante con la mascolinità. Piuttosto, in “Bohemian Rhapsody” viene operata una sorta di addomesticamento del desiderio. Per esigenza di copione o per concessione alla morale vigente nel 2018?
Tuttavia, il film ha incassato negli Stati Uniti cifre stratosferiche e pure in Italia dove l’abbiamo visto tra laghi di commozione. Perché, ho pensato, Radio Ga Ga oppure We will rock you continuano a testimoniare quanto sia stato profondo lo squarcio nella eterosessualità imposto da Freddie Mercury. E questo non si può cancellare.

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