“Può darsi che sia stata colpa mia. Che gli abbia mandato segnali poco chiari. Segnali sbagliati”. Questa è la frase rivelatrice, che ti lascia intendere quanto sia complicato (per la legge) dire dove sta la verità in una violenza sessuale quando c’è di mezzo l’amore, l’attrazione, l’allegria, la confusione, la nostalgia. O tutti questi sentimenti insieme. Quando cioè il Sì guizza (dunque lei è d’accordo) e poi trascolora, impallidisce in un No (dunque lei ha ritirato il suo consenso). Ma l’ha sussurrato a mezza voce. Con un No insicuro. Oppure non ha detto né Sì né No. Perciò viene recepito da lui come una sorta di silenzio-assenso.
Il problema che spesso la giustizia fatica a vedere è che le relazioni tra i due sessi non sono sullo stesso piano, equivalenti, equilibrate. Per non parlare di quelle appena – malamente – concluse che mica puoi chiudere come se premessi un interruttore della luce!
Nelle aule dei tribunali però si lotta senza esclusione di colpi intorno a questo interrogativo: era “consenziente”?
Nel giallo “Anatomia di uno scandalo” (traduzione di Carla Palmieri, Einaudi 2018) di Sarah Vaughan, giornalista che ha lavorato al “Guardian”, si tratta, appunto, del consenso.
Ma la verità è sfuggente. Sta dalla parte del sottosegretario Tory, James Whitehouse, del genere uomini nati con la camicia: studi a Oxford, carriera brillante assicurata, buon padre di famiglia, attraente marito di Sophie, la sposa dai grandi occhi blu che metterebbe una mano sul fuoco sulla fedeltà dello stesso?
Oppure ha ragione l’avvocata Kate, decisa a inchiodare il sottosegretario perché convinta dalle ragioni della querelante, intelligente, determinata segretaria dalla “sensualità tentatrice” nascosta dietro l’abito da educanda?
Dopo cinque mesi di una relazione clandestina molto appassionata, brutalmente scaricata dal sottosegretario, è capitato che la querelante venisse placcata e poi costretta a un nuovo, brutale rapporto che può definirsi stupro.
Cosa è accaduto realmente e chi ha invitato chi nel piccolo ascensore di Westminster? Sul serio il sottosegretario non ha voluto sentire ragioni e ha intimato all’amata per cinque mesi con la classica retorica bellicosa della sessualità maschile, di “non fare l’attizzacazzi”?
La legge dovrebbe soppesare le prove ma anche l’influenza ricattatoria dell’uomo che si è approfittato di quel legame: “Lo amavo ancora”. Dovrebbe valutare la vergogna sperimentata dalla vittima incorsa in quella violenza.
Non diremo come va a finire il libro. Sappiate che non si tratta solo di un legal thriller ma che la psicologia del rapporto tra i sessi e la decisione femminile di prendere la parola sugli abusi vengono seguite con intensa partecipazione. Quasi una anticipazione del #MeToo e di quel terremoto che sta scoperchiando la cultura dell’impunità a Hollywood come alla Casa Bianca oppure al Municipio di Stoccolma dove avviene la premiazione dei Nobel.
Sarah Vaughan suggerisce che non è tanto il processo a cambiare le cose e se il femminismo nella lotta contro la violenza sulle donne – come nota Tamar Pitch in “Studi della questione criminale” – tende sempre di più a rivolgersi al diritto penale, in “Anatomia di uno scandalo”, è la soggettività femminile a cambiare le cose. O meglio, la vita delle persone giacché bisogna avvicinarsi con discrezione alle ferite dell’anima e questo la scena processuale non può proprio farlo.