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Microcritiche / Tragicommedia nel salotto di cattivo gusto

3 Luglio 2018
di Ghisi Grütter

IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO – Film di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Cassidy, Sunny Suljic, Alicia Silverstone, USA 2018. Sceneggiatura di Yorgos Lanthimos e Efthymis Filippou. Fotografia di Thimios Bakatakis –

The Killing of a Sacred Deer”, il film del regista greco Yorgos Lanthimos, può essere considerato una commedia dark che man mano vira nell’horror. Molte sono le cose che ci sono dentro, che però non appesantiscono la visione scandita e precisa del racconto. Ci sono dentro i miti greci, la vita e la morte, il concetto di colpa e di giustizia, l’espiazione, la vendetta, il destino, i complessi rapporti genitoriali, le gelosie e gli innamoramenti adolescenziali.
Teatro di tutta la vicenda è una splendida Cincinnati, una città con tanti ponti sull’Ohio River, con meno di 300.000 abitanti, rappresentata nel film piena di sole nella fotografia di Thimios Bakatakis. Più della metà delle scene sono girate nel Christ Hospital dove lavora un cardiochirurgo – Steven Murphy interpretato dall’impeccabile Colin Farrell – che sembra la personificazione di un perfetto borghese: vive in una villa unifamiliare suburbana, ha una bella moglie oftalmologa Anna (Nicole Kidman), una figlia adolescente Kim e un figlio più piccolo Bob (Raffey Cassidy e Sunny Suljic). La sua casa è fredda e “sterile”, arredata con un terribile gusto borghese, con mobili falso antichi e pesanti tende alle finestre, senza alcun tocco della mano di un architetto. La stanza da letto matrimoniale ha un pesante letto a baldacchino (citazione de “L’Esorcista”?) quasi un altare sacro. “Il sacrificio del cervo sacro” è una farsa macabra piena di paradossi, cui il regista del bizzarro “The Lobster” del 2015 ci ha abituato, narrati con una sconvolgente fissità di sguardo e compiacimento del grottesco. Infatti, né il film né i componenti della famiglia hanno alcunché di empatico e il racconto è svolto con un occhio freddo e distaccato, girato con carrelli indietro e lenti zoom in avanti, con stranianti grandangoli e campi lunghi.
Steve ha preso a protezione Martin (Barry Keoghan), il figlio sedicenne di un suo paziente deceduto a seguito di un suo intervento (si scoprirà poi che probabilmente era ubriaco). Ha un rapporto ambiguo con il ragazzo, un po’ protettivo e un po’ reverenziale. Gli compra un orologio da sub piuttosto caro e sembrerebbe non saper dire di no alle sue richieste. Lo incontra di nascosto dalla famiglia in squallidi bar di sapore hopperiano, quasi un amante furtivo. Man mano, per gratificarlo, Steve lo invita in casa e gli fa conoscere moglie e figli con i quali Martin stringe amicizia. In particolare con Kim sembra nascere anche un flirt.
Ma Martin sembra avere dei poteri demoniaci e minaccerà di morte tutta la famiglia del cardiochirurgo se lui non ne sacrificherà un membro, come risarcimento per la morte del padre. Per di più ha un insano desiderio di far accoppiare Steve con sua madre (Alicia Silverstone), nel frattempo dimagrita e “in tiro”. In tal modo il nucleo familiare della perfetta coppia di medici si inizia a frantumare fino ad assumere i toni di una tragedia greca – non a caso i critici parlano del sacrificio di Ifigenia di Euripide (ma forse c’è anche un riferimento al dio Saturno). Ma per assurdo, la minaccia riunisce i membri della famiglia che iniziano a essere meno perfetti e più umani: le voci si alzano, si urla e si piange, si romperanno piatti e bicchieri, si solidificano i rapporti tra figli e genitori – «Chi è il tuo migliore amico?» chiede Steve a suo figlio Bob – e Steve diventa perfino offensivo con i colleghi che non riscontrano alcuna malattia nei figli diventati ormai paraplegici. Perfino gli ingenui figli cambieranno sotto minaccia e faranno a gara per compiacere spudoratamente il padre, nel tentativo di salvarsi la vita.
Il gusto macabro e le scene sadiche fanno parte del repertorio formale di Lanthimos che qui fa il verso a Kubrick nel riprendere le scale mobili dall’alto e i lunghi corridoi vuoti in prospettiva centrale – ricordate l’albergo di “Shining”? Anche nelle scelte musicali Yorgos Lanthimos si rifà ai gusti di Stanley Kubrick: il minuto di buio iniziale è sottolineato da Stabat Mater di Franz Schubert, poi le scene saranno accompagnate da brani di Gyorgi Ligeti o da cori bachiani. Un altro regista che i critici associano a Lanthimos è l’austriaco Michael Haneke per la sua crudezza e per il suo cinismo. A mio avviso, il regista greco possiede un lato tragicomico – forse un po’ meno evidente in questo film rispetto ai precedenti – che gli altri non hanno, né vogliono avere. Basti pensare alle scene in cui i bambini paraplegici strisciano per terra e Kim addirittura scende le scale e se ne va in giro nel prato, oppure la scena in cui Anna – impietosita o supplicante? – bacia i piedi feriti di Martin come la Vergine Maria quelli del Cristo deposto. È proprio questo lato grottesco che impedisce di catalogare il film come horror. L‘unica regista che si può accomunare a Lanthimos, è la sua amica Athina Rachel Tsangari che, nel suo film “Attennberg” del 2010 fa recitare proprio Yorgos Lanthimos e sua moglie l’attrice Arian Labed, che per questo film ha vinto la Coppa Volpi a Venezia. Stessa visione distaccata, stessi temi di malattia, morte e anaffettività, stesso fotografo di scena.
Al Festival di Cannes del 2017 il film ha condiviso ex aequo il premio per la miglior sceneggiatura – scritta da Yorgos Lanthimos con Efthymis Filippou – con “A Beautiful Day” di Lynne Ramsay. Bravi gli attori, perfino Nicole Kidman che, dopo anni di film sbagliati, torna finalmente a un buon livello recitativo.

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