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Microcritiche / Il divenire delle città di Wenders

18 Luglio 2018
di Ghisi Grütter

L’AMICO AMERICANO – Film di Wim Wenders. Con Bruno Ganz, Dennis Hopper, Liza Kreuzer, Nicholas Ray, Samuel Fuller, Gérard Blain, Lou Castel, Germania, Francia del 1977. Fotografia di Robby Müller –

In questa estate romana molte sale cinematografiche propongono delle rassegne: ogni giorno è proiettato un film diverso già uscito, dando la possibilità a chi non l’abbia visto di recuperarne la visione o, a chi già lo conosce, di rivederlo a distanza di tempo. È appunto il caso di “Der amerikanische Freund” del 1977, lo splendido film di Wim Wenders, il primo forse che è destinato a un pubblico più commerciale rispetto ai suoi precedenti. Dopo aver girato “La lettera scarlatta” nel 1972, “Alice nelle città” nel 1973 e “Nel corso del tempo” nel 1975 – dove ha dimostrato di saper raccontare bene la Germania post-bellica – Wenders si concentra sul cinema americano europeizzandone, in qualche misura, i significati, come in questo film che ha un po’ la struttura del noir americano. La storia, infatti, è tratta da uno dei racconti di Patricia Highsmith da cui sono stati ricavati almeno altri tre film: “Plein soleil” diretto da René Clément nel 1960 e “Il talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella del 1999 sono tratti dallo stesso romanzo – con Alain Delon nella parte di Tom Ripley il primo e Matt Damon il secondo – e “Ripley’s Game” di Liliana Cavani del 2002 – con protagonista John Malkovich – dallo stesso racconto de “L’amico americano”. Wenders, che si considera un po’ frutto di una terribile e ingiusta guerra, in questo film probabilmente vuole mettere in evidenza che gli americani non sono sempre cattivi e i tedeschi sempre buoni, né viceversa.
Nel film di Wenders il ruolo principale è di Jonathan Zimmermann, un corniciaio di Amburgo, ma di origine svizzera, malato di leucemia e impersonato da Bruno Ganz, che avvicinato e raggirato da un malavitoso francese, si trova incastrato in un affare di malavita, costretto a uccidere su commissione per tentare nuove cure e per lasciare soldi alla famiglia nel caso le terapie non funzionassero. La sua triste storia s’intreccia con quella di Tom Ripley, un mercante americano di quadri, un po’ truffaldino, che vive tra New York e Amburgo. Da un primo incontro scontroso a un’asta di quadri (Jonathan non gli ha voluto stringere la mano), tra i due nascerà una certa curiosità reciproca grazie prevalentemente all’insistenza di Tom Ripley. Depresso il primo, apparentemente estroverso e vitale il secondo. In effetti, Ripley è in cerca di una sua vera identità e il forte senso di solitudine lo porta a parlare al registratore dove annota le sue elucubrazioni mentali. Alla fine Tom, invece di vendicarsi per l’atteggiamento scortese di Jonathan, lo aiuterà a uscir fuori dai pasticci e dalle maglie della criminalità. Purtroppo sarà troppo tardi perché la malattia del corniciaio avrà il sopravvento.
A mio avviso le scene più belle del film sono proprio quelle d’azione un po’ goffe – dove Wenders anticipa i maldestri killer dei fratelli Joel e Ethan Coen di almeno vent’anni – girate in movimento e in spazi di servizio: una nei meandri della metropolitana parigina nella stazione de La Defénse e l’altra sul treno nel percorso tra Monaco e Amburgo. Nelle riprese di Parigi, dove peraltro il regista ha vissuto e studiato pittura da giovane, Wenders si è ispirato alla fotografia di Vittorio Storaro nel film di Bernardo Bertolucci “L’ultimo tango a Parigi” del 1972 e sposta la macchina da presa dall’alto verso il basso. Ottima è la direzione fotografica di Robby Müller che si è inventato i kino-fows, i tubi fluorescenti utilizzati per i colori dei film.
Ho trovato, inoltre, di estremo interesse il modo in cui il regista fa crescere l’amicizia maschile: molto lentamente, tra una bevuta e una chiacchera al bar e dopo qualche parola scambiata sulla bellezza del lavoro artigianale. L’occhio di bue in quel periodo era concentrato sul mondo femminile; gli anni ’70 erano quelli della presa di coscienza femminista, le donne avevano finalmente iniziato a parlare tra loro fuoriuscendo dalle famiglie e incontrandosi nei piccoli gruppi, dove socializzavano e confrontavano le loro esperienze. Wenders pertanto ha avuto coraggio per parlare, controcorrente, delle modalità di incontro del maschile.
Come in molti film di Wim Wenders, la vera protagonista è la città, o meglio le tre città nelle quali si svolge la vicenda. Amburgo con il suo porto è rappresentata come una vecchia signora e il villone novecentesco in stile palladiano nel quale vive Tom, probabilmente è uno di quelli che i ricchi industriali del secolo scorso si facevano costruire appositamente. New York è raffigurata da Manhattan che, essendo un’isola, è contornata anch’essa dal mare (o dal fiume Hudson). Probabilmente la contrapposizione tra vecchio e nuovo mondo, simboleggiata dalle due città a confronto, sottolinea, pur nelle analogie, la distanza che c’è tra i due protagonisti.
Parigi invece è un posto neutro ed è descritta tutta in costruzione. Infatti, la grande Parigi novecentesca che abbiamo imparato a conoscere, si è sviluppata prevalentemente negli anni ’80 sotto François Mitterrand che fu Presidente per due mandati dal 1981 al 1996. “L’amico americano” è girato contemporaneamente alle trasformazioni urbane di George Pompidou: basti pensare che Les Halles, il mercato con i padiglioni in ghisa smantellati nel 1971, lascia il posto al Beaubourg, che sarà inaugurato nel 1977 e al Forum, che sarà terminato solo nel 1979.
Wim Wenders sembrerebbe usare la ripresa cinematografica come veicolo di rappresentazione della città e del territorio, e può essere considerato un regista di “luoghi. Wenders ha girato vari film ognuno dedicato a un’altra città; vorrei qui citare solo “Il cielo sopra Berlino” del 1987, dove mostra una città ancora devastata dalla guerra e dove perfino i monumenti di architettura moderna soffrono di questa condizione, e “Lisbon story” del 1994 dove invece la città più che narrata è intuita, allusa, talvolta solo attraverso i suoni. Qui il protagonista ritrova l’amico regista, che lo aveva invitato come tecnico della sonorizzazione, in un quartiere stravolto dall’avanzata della Lisbona moderna. I rumori di Lisbona consistono nelle voci nei barrios, nei tram dell’Alfama, nei battelli sul Tago, nelle automobili sul Ponte del 25 Aprile, ma anche nelle voci dell’arrotino, del mercato del pesce, e dei piccioni.
I luoghi osservati da Wenders sono spesso reliquie del presente o rovine del nostro tempo come i drive-in abbandonati che non custodiscono memoria né portano tradizione – basti pensare a “Paris Texas” -, talvolta non hanno ancora accumulato tempo, o sono rovine fin dalla nascita, come gli squallidi interni di motel vicini alle highways. Il regista visualizza la civiltà dei mass-media inserendo nei suoi film immagini di billboards, di apparecchi radiofonici e televisivi, di juke-boxes e di slot machines quali reperti consumistici. Non sempre i luoghi da lui rappresentati sono riconoscibili. Infatti, il suo gusto per le zone abbandonate, per le periferie, per la città “altra”, per lo squallore del middle of nowhere e per ciò che è chiamato il “non-luogo”, talvolta rende non individuabili le realtà urbane e territoriali in cui i suoi film sono girati. Non di meno, le sue immagini sono preziose testimonianze che lui stesso sceglie con cura e analizza con ossessiva professionalità, come testimoniano anche le sue raccolte di fotografie.

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