Pubblicato sul manifesto il 17 luglio 2018 –
Tempo fa, grazie a Youtube, ho scoperto l’arte di Maria Joao Pires. L’ho ascoltata e vista suonare Bach, Mozart, Schubert con una grande perizia tecnica ma soprattutto con una ispirazione che fa tutt’uno con la sua figura minuta, le espressioni intense e raccolte del volto. Un virtuosismo profondo e trattenuto dell’anima, direi.
Domenica su Repubblica, intervistata da Giuseppe Videtti, spiegava perché ha scelto di dedicare molto più tempo all’insegnamento che ai concerti e alla “carriera”, oggi in una scuola che ha aperto in Brasile, rivolta a bambini “svantaggiati” (“…insegno a cantare in coro, è importantissimo che abbiano di nuovo la capacità di ascoltare e ascoltarsi; il canto li aiuta a superare i traumi”).
Pires ha avuto una grande affermazione in tutto il mondo come pianista, ha inciso moltissima parte del repertorio classico, ma del successo dice che “è il peggior nemico dell’artista e degli esseri umani in genere, è qualcosa che ti fa sentire diverso dagli altri, e questo genera un senso di solitudine e d’infelicità. L’ho sempre vissuto con un insopportabile senso di ansia e di paura”.
“L’istruzione – prosegue – è l’unica risorsa che il genere umano ha per salvarsi (…) viviamo in un mondo sempre più materiale in cui i valori traballano, le tradizioni sono trascurate, la storia dimenticata, le arti relegate a una élite o strumentalizzate a fini commerciali. Dobbiamo aprire gli occhi e renderci conto che questo ci condurrà al disastro. Investire sulle scuole e sui bambini vuol dire lavorare per un mondo popolato da cittadini consapevoli”.
Oggi me la cavo con due citazioni.
La seconda riguarda il discorso di Kazuo Ishiguro all’assegnazione del Nobel per la letteratura l’anno scorso (pubblicato nelle “Vele” di Einaudi, 2018). La musica è spesso presente nella sua scrittura, e Ishiguro racconta di come l’ascolto di un canto, non per quello che dicevano le parole, ma per il modo in cui venivano cantate, gli abbia aperto improvvise intuizioni emotive e concettuali, che ha poi tradotto nei suoi romanzi.
Anche l’autore di Quel che resta del giorno e di Non lasciarmi è preoccupato di come ultimamente va il mondo. La sua – e nostra – generazione, i figli di chi ha vissuto la guerra, ha visto “i nostri vecchi trasformare con successo l’Europa da un luogo di regimi totalitari, genocidi e massacri senza precedenti a una porzione di mondo molto invidiata”. Ha visto “progressi significativi nell’ambito del femminismo, dei diritti degli omosessuali e nella battaglia su molti fronti contro il razzismo (…) Ora però, guardandoci indietro, l’epoca iniziata con il crollo del Muro di Berlino appare come un tempo all’insegna dell’indifferenza e delle occasioni perdute”. Di fronte a noi stanno “immense disuguaglianze”. E un “presente in cui le ideologie di estrema destra e i nazionalismi di stampo tribale tornano a proliferare”. Torna anche il razzismo, e “freme sotto le strade della nostra civiltà come un mostro sepolto pronto a risvegliarsi”. Altri esiti mostruosi potrebbero venire da un uso sconsiderato delle “stupefacenti scoperte della scienza, della tecnologia, della medicina”.
“In un’epoca di divisioni che crescono pericolosamente – è l’appello finale dello scrittore – è necessario che ci mettiamo in ascolto. La buona scrittura e i buoni lettori abbatteranno le barriere”. Speriamo.
Successo è un sostantivo che, sin dal latino, deriva dal participio passato del verbo succedere: una cosa che è accaduta. Sarebbe già qualcosa leggere questo significato, preoccupati di un futuro comune, al posto di un’affermazione personale, magari a scapito di altri.