L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA – Film di Aki Kaurismäki.Con Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen, Ikka Koivula, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu, Kaija Pakarinen, del 2017. Fotografia Timo Salminen, scenografia Markku Pätilä, montaggio Samu Hekkilä –
L’altro volto della speranza fornisce un quadro di una Finlandia vissuta da emigrati clandestini, da emarginati, da filonazisti, da giocatori d’azzardo, ma anche di un luogo dove sembra ci siano “gli angeli in terra”. In epoca di crisi economica crescono anche le insoddisfazioni individuali: il maturo finlandese rappresentante di camicie le vuole svendere per cambiare lavoro, il ristorante va riconvertito, il negozio di camicie chiude perché la proprietaria vuole emigrare in Messico, stanca “di tanto silenzio e di tanta pace”!
Il soggetto dell’esilio – che sia dal proprio paese o dalla propria condizione esistenziale – non è un tema nuovo per Kaurismäki, così come aveva già fatto nel suo Miracolo a Le Havre del 2011. Non è nuovo neanche nella cinematografia attuale, ma il modo di rappresentarlo è sicuramente singolare, senza la ricerca di effetti facili, né pathos, apparentemente in maniera anaffettiva. L’altro volto della speranza, miglior regia alla Berlinale di quest’anno, è un film girato in modo antinaturalistico, scorre in poche scene, come fossero una serie di immagini cucite insieme quasi un cartoon: il tutto è rappresentato come un succedersi di eventi e paradossi. Un po’ quello che fa Wes Anderson in versione americana ne I Tenenbaum del 2001, ma anche in The Grand Budapest Hotel del 2014 – mi ha fatto notare la mia compagna di cinema. Il linguaggio tipico del regista finlandese, è minimalista ed essenziale; ma il film possiede anche una forte carica ironica e molti personaggi sono descritti sul filo della caricatura. Così ad esempio i due grotteschi camerieri ereditati assieme al ristorante, e così i vecchi cantati anni ’70 – nell’età e nello stile – in versione finnica (la musica è un elemento molto presente nel film). Si vede che Kaurismäki ama osservare le persone con attenzione e spesso le ripropone riprendendone alcuni dettagli eloquenti.
Il film gira attorno alle vicende di Khaled, un siriano di Aleppo scappato fortunosamente dal suo paese che, dopo una vera e propria odissea, è sbarcato a Helsinki su una carboniera, dopo aver perso la sorella nella strada tra la Slovenia e l’Ungheria. Fiducioso nell’accoglimento del popolo finlandese Khaled va alla polizia e chiede asilo politico. Purtroppo la sua domanda viene respinta, perché la zona di Aleppo non è considerata in una situazione sufficientemente pericolosa. Khaled, quindi, la notte prima di essere rimpatriato fugge ed entra in clandestinità; incapperà in picchiatori razzisti esterofobi (che lo scambiano probabilmente per ebreo) e si nasconderà fino a essere scoperto e aiutato da Wilkström, il finlandese che aveva appena acquistato la gestione del ristorante “La Pinta d’Oro”. I due buffi ed esperti camerieri insieme alla giovane apprendista lo aiuteranno, otterrà un lavoro (Khaled era un bravo meccanico al suo paese) al ristorante e perfino un posto dove dormire. Alla fine Wilkström lo aiuterà anche a ritrovare sua sorella e a farla arrivare in Finlandia dalla Lituania.
I protagonisti del film sono dunque due, diametralmente opposti ma entrambi alla ricerca di una nuova vita: Wilkström il sessantenne finlandese (Sakari Kuosmanen interprete di molti film di Kaurismäki) e Khaled il clandestino (il volto nuovo di Sherwan Haji) che finiranno, dopo una scazzottata, a condividere la scena.
Un finale agro-dolce che non voglio rivelare, è ottenuto a caro prezzo e solo per aver incontrato tanta umanità, oltre a tanta cattiveria. Kaurismäki sembrerebbe affermare, come alternativa alla religione (e alla politica) in cui non crede e in cui non fa credere i suoi personaggi, un mondo fatto di solidarietà umana.