I giudizi sul significato dell’incontro dei 27 a Roma per il 60° dei Trattati di Roma restano divergenti. E’ facile, e giusto, ironizzare sugli eccessi retorici, denunciare l’ossessione per l’”ordine pubblico”, vedere il permanere di divisioni e scelte dettate da logiche politiche, finanziarie e interessi esecrabili.
Tuttavia, come hanno sostenuto sul manifesto le analisi critiche di Teresa Pullano e di Etienne Balibar, non bisognerebbe dare la partita europea per persa, a vantaggio dei risorgenti nazionalismi destrorsi.
Il presidente Mattarella ha detto che i trattati europei vanno cambiati, che è poco il tempo per evitare la catastrofe, e ha evocato l’apertura di una fase costituente.
L’espressione, per la verità, fa pensare a disastri. Mi viene in mente la “fase costituente di una nuova forza politica” annunciata trent’anni fa alla fine del Pci. O la vecchia idea dalemiana di “costituzionalizzare” Berlusconi. E l’esito, tra il drammatico e il grottesco, del più recente tentativo di rimettere mano alla Costituzione italiana. Senza dire che è già fallita una volta l’idea di Costituzione europea, evidentemente mal congegnata in partenza.
E’ già stato ampiamente osservato quanto abbia pesato il contrasto tra la Roma blindata dei 27 e il popolo festante che ha accolto a Milano il papa. Questo papa.
Una coincidenza che mi ha convinto una volta di più di quanto fosse stato sbagliato espungere da quel tentativo costituente – come disse un altro papa – le “radici cristiane” dell’Europa. Come sarebbe sbagliato rimuoverne le radici socialiste (e persino comuniste) o quelle femministe (pensiamo solo alle recenti manifestazioni dell’8 marzo o alla resistenza delle donne polacche ai tentativi di peggiorare ulteriormente le norme sull’aborto). E sarebbe ugualmente sbagliato ignorare o sottovalutare il peso della cultura ebraica e di quella islamica.
Ma qui voglio avanzare soltanto una modesta proposta.
Se per costituente si pensa soprattutto all’esigenza di un patto, o ancor meglio di un sistema di relazioni, condiviso dai popoli, e dalle singole persone che li compongono, capace di far esistere sempre di più l’Europa anche come istituzione, la cosa più urgente e utile forse è semplicemente quella di parlarne.
Farlo però con una attenzione intensa alle parole che si usano. E al metodo con cui si discute. Non citerò il concetto lacaniano di simbolico, né la performatività del linguaggio discussa dal femminismo più recente, ma il filosofo americano John Searle, secondo il quale le istituzioni – dagli stati nazionali, alle banconote, ai party e le partite di calcio – sono create, istituite – appunto – e conservate, da dichiarazioni e atti linguistici.
Il che non vuol certo dire che basta dire una cosa perché si avveri. Tuttavia non succederà sicuramente nulla se non si trova il vero nome di quello che cerchiamo e desideriamo.
Due esempi, apparentemente distanti.
Un programma televisivo su Rai1 fa del sessismo sulle donne dell’Est europeo, e suscita scandalo. La tv pubblica deve chiuderlo e farlo sparire dai suoi siti, o invece dovrebbe aprire un serio discorso sul tema?
Il presidente dell’Eurogruppo ironizza alludendo ai paesi del Sud che spendono e spandono “in alcol e donne”, e poi si difende invocando la “solidarietà socialdemocratica” e la “cultura calvinista olandese”. Una battutaccia da dimenticare? No, è un altro discorso da sviscerare, come ha fatto su Alfabeta2 (https://www.alfabeta2.it/2017/03/27/fiori-europei/) Giorgio Mascitelli.
Per costituire qualcosa, tanto più qualcosa di giusto e democratico, prima di tutto va recuperata l’arte perduta della discussione.