Pubblicato sul manifesto il 21 febbraio 2017 –
I giornali, compreso questo, sono e saranno pieni di cronache, retroscena, commenti e interviste sulle vicende del Pd e della scissione che a quanto pare lo sta investendo. Non nascondo di provare un residuale misto di passione politica e professionale per l’esito di una vicenda che ha attraversato – e a lungo – la mia vita (anche se non ho più una tessera in tasca dal lontano 2000). Mi ritaglierò uno spazio minimo, sottolineando una parola che riemerge da quasi un trentennio nel dibattito politico: caminetti.
Tutti sanno che cos’è un caminetto, molti lo hanno funzionante nella casa in campagna. Accendere il fuoco, tenere le braci ben vive riscalda l’ambiente e – in certe condizioni – aiuta anche lo spirito, la conversazione, e la manifestazione reciproca di buoni sentimenti.
Nella vita politica il caminetto è una riunione tra gli esponenti principali del gruppo dirigente – come si diceva una volta – di un partito, o se si preferisce dei capicorrente. I quali si incontrano informalmente per affrontare qualche problema cruciale, con l’intenzione di evitare l’esplosione di un conflitto che potrebbe causare la “rovina comune” dei contendenti in lotta.
Ho ascoltato per la prima volta questo termine ai tempi della svolta del Pci: quando la contesa sul cambio del nome del partito stava precipitando nella conta dei Si e dei No c’erano stati tentativi di comporre un accordo unitario. E tentativi simili si ripeterono in seguito col proposito di evitare – anche allora – la scissione. Si potrebbe pensare a iniziative positive, o quantomeno animate da buone intenzioni. Ma il termine caminetto – soprattutto da parte dei più ferventi occhettiani e “svoltisti” – fu subito sinonimo di qualcosa da aborrire, una pratica orribilmente “consociativa”, una trama intessuta alle spalle del “popolo” di militanti-attivisti-elettori, un ritorno ai vecchi polverosi riti del “centralismo” dei comunisti ecc.
Mentre il nuovo avanzante reclamava confronti e battaglie trasparenti, più democratiche, forse anche più virili. (Bisognerebbe riflettere sul fatto che queste riunioni riguardano quasi esclusivamente maschi, probabilmente bisognosi di salotti appartati per sopire gli spiriti pugnaci e indursi a deporre le maschere obbligatorie sulla scena pubblica).
Mi ha sorpreso che questa metafora negativa sia stata usata, e a più riprese, anche dal giovane Renzi. Il quale l’ha ripetuta anche nella ultimativa relazione all’assemblea di domenica: basta con i caminetti e basta con le correnti! Ha detto a un certo punto.
Già perché le correnti sono l’altra faccenda abominevole dei partiti. Naturalmente si rimane perplessi sull’alto numero di correnti che si manifestano all’interno del Pd, tuttavia non conosco finora un altro modo per organizzare un minimo di vita democratica in un soggetto politico che – come ha detto peraltro lo stesso Renzi – non voglia essere un “partito-azienda” alla Berlusconi, o un’”azienda-partito” alla Grillo-Casaleggio. Il punto, semmai, è che si comprenda con chiarezza che cosa motiva uomini (e donne) di uno stesso partito a dividersi in gruppi con una loro autonoma vita democratica: idee? Culture? Programmi? Valori? Legami territoriali o personali? Pratiche politiche condivise? Ma questo è un altro discorso…
Resta che trovo ipocrita esecrare le correnti da parte di uno che ha la sua corrente (o, peggio, il suo gruppo informale di amiche e amici fidati), e incauto disertare i caminetti nei quali, rilassandosi un poco, sorseggiando un brandy, e persino una coca cola, si potrebbe almeno provare a ascoltare le ragioni degli altri.