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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

E se la chiamassimo guerriglia?

1 Dicembre 2016
di Bia Sarasini

Pubblicato nell’inserto del Manifesto “Il corpo del delitto”, 23/11/2016

Che cosa è la violenza sulle donne? Può sembrare stravagante chiederselo proprio ora che le cronache riportano quasi ogni giorno episodi di donne ammazzate, a volte anche torturate da uomini. A volte uccise con i loro figli. Mentre non mancano gli stupri, le molestie, le persecuzioni. Eppure qualche confusione deve esserci, se la propaganda del governo, per definire una delle destinazioni del modestissimo contributo di 60 milioni alle Pari Opportunità, ha parlato di “violenza femminile”. Come se si fosse deciso di destinare aiuti alle “mamme omicide”, invece che alle vittime. Il testo, rapidamente corretto, è una spia significativa. Nel caso delle donne, la violenza, una parola che indica un’azione, con l’aggettivo “femminile” diventa passiva, e si capisce lo stesso. Tragico. Provate a pensare il contrario: “violenza maschile”, a chi potrebbe venire in mente che si tratti di violenza sugli uomini?

Insomma, lo stato delle cose è questo. Nel discorso pubblico violenza e donne sembrano la stessa cosa, in un intreccio inestricabile. E da qui occorre partire, propria ora che la manifestazione del 26 novembre, di nuovo nazionale dopo molti anni, riporta le donne in piazza contro la violenza. Non per gli obiettivi della manifestazione, che sono molteplici, e per quanto riguarda il finanziamento anticipati dal governo. Occorre chiedersi perché dal summit di Pechino in poi agenzie internazionali, governi, agende politiche sono piene di appuntamenti e hanno scritto trattati contro la violenza sulle donne. Un obiettivo mainstreaming, e nello stesso tempo nulla sembra cambiare. Anche se in Italia i femminicidi sono diminuiti. E tantissimi uomini sembrano sempre più consapevoli di quanto succede.

Man mano che si approfondisce, si scava, si scopre quanto il sistema della violenza sia stratificato. Quanto l’intero sistema culturale, i simboli, le parole che usiamo poggino sul dominio degli uomini sulle donne, un vero e proprio sistema. E che questo dominio ha come base implicita, resa esplicita e visibile quando serve, la violenza che i maschi esercitano-possono esercitare. Non tutti, e non sempre, e non nello stesso modo. Edoardo Albinati, nel suo “La scuola cattolica” (Rizzoli) definisce il delitto del Circeo una rappresaglia, a fronte del cambiamento in corso. Nel 1975 un gruppo di ragazzi fascisti rapì, violentò e uccise. Alcuni di loro sono riusciti a sfuggire, non sono mai stati puniti. Era l’anno in cui il femminismo italiano diventava visibile nelle piazze, l’autonomia delle donne era un fatto reale, che cambiava le cose. Perché non pensare che i femminicidi, uomini che uccidono le donne perché scelgono di lasciarli siano, più che una rappresaglia – le vittime non sono intercambiabili, si uccide proprio quella donna, perché non vuole più essere la mia donna – una sorta di guerriglia su base individuale? Una guerriglia che è la conseguenza dello smottamento provocata dall’autonomia delle donne nel sistema sociale e simbolico della modernità, nel contratto sociale e sessuale che ne è alla base.

Lo stato moderno, che ha trasformato i sudditi in cittadini, ha alla sua base la cessione dell’esercizio della violenza allo stato. Gli individui non possono impugnare le armi per attaccare i nemici, nemmeno per difendersi, questo è per l’appunto compito della comunità, dello stato. L’unica eccezione – a parte tutte le trasgressioni più o meno consentite – è la famiglia, dove ciascun uomo può esercitare un’ampia potestà su moglie e figli, e rimando per questo al fondamentale “Il contratto sessuale” di Carol Pateman (Moretti&Vitale). Non un diritto positivo di vita e di morte, codificato per legge, non del tutto, una zona d’ombra, coperta dal silenzio. Nella quale diverse forme di violenza, punizione, tortura, segregazione sono state perfettamente compatibili. Anche nell’ambito del protestantesimo, non solo del cattolicesimo o dell’islam. Con legislazioni differenti, che in differenti modi hanno protetto, coperto e per alcuni casi, come il delitto d’onore, giustificato le crudeltà e le violenze. Del resto la modernità si instaura a ridosso – e in verità sopra – il cumulo di corpi, in gran parte ridotti in cenere, dell’ultimo grandioso episodio di regolazione dei conti collettiva contro le donne, la caccia alle streghe. Colpevoli di troppa autonomia, signore di saperi propri, che rifiutavano di farsi inglobare senza che ne fosse riconosciuta la competenza e l’autorità, in quel corpus che sarebbe diventata la scienza moderna.

Anche questo è un capitolo difficile da aprire, impossibile approfondire ora, anche se va ricordato che giusto quarant’anni fa, l’8 marzo del 1976, la più imponente manifestazione del femminismo italiano fu fatta nel nome delle streghe.

Se uso il termine “guerriglia” è per provocazione, per spostare l’attenzione. Per cercare un senso che vada oltre l’individuale groviglio tra possesso, gelosia, rabbia, perdita del senso di sé che finisce per riempire pagine e pagine, senza che mai si trovi un centro. Non pretendo di farne una teoria generale, e diffido delle categorizzazioni che pretendono di spiegare tutto. Mi piacerebbe stimolare le donne, e tra loro le femministe in speciale modo, e gli uomini che vogliono pensarci su e magari fare qualche azione in direzione del cambiamento, a rendersi conto che la violenza degli uomini sulle donne attraversa l’intero corpo sociale, non è un fatto separato, anzi ne è un pilastro. Che non si tratta cioè di bene e di male, di spingersi verso il bene. Di far sì che gli uomini diventino buoni. O sì, ma non è sufficiente.

Occorre che le donne per prime si rendano conto, e quindi agiscano di conseguenze, che modificare il dominio degli uomini sulle donne, eliminare per quanto possibile la violenza che ne è lo strumento come asse di un sistema sociale e politico, è un’impresa grandiosa, un’utopia per cui vale la pena di lottare. Il perno di lotte per uguaglianza, giustizia, libertà. E l’uso di queste parole è deliberato, e provocatorio. Non vorrei che tutto si risolvesse in chiedere, sottolineo chiedere, qualche fondo in più. C’è il mondo da cambiare, nulla di meno.

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