“Saper distinguere il film dal regista, il romanzo dall’autore”. Dice bene Goffredo Fofi (su Internazionale). Eppure, guardando Sully non sono riuscita a mettermi tranquilla. Anzi, ho il dubbio (una scivolata nel realismo socialista?) che le ideologie, buone o cattive, finiscano per condizionare i prodotti artistici e stingano sui film, sui romanzi con il risultato di appesantire anche quelli più nobile.
Sully è un film nobile. Guardandolo, mi sono ricordata dell’intervista data l’estate scorsa da Clint Eastwood alla rivista Esquire, nella quale sottolineava l’apprezzamento per il linguaggio di Donald Trump. Nessun endorsement esplicito, piuttosto una presa di posizione, non nuova, non inattesa, contro i “leccaculi del politicamente corretto”.
Con Sully viene celebrato il mito redentore dei salvatori: ferry boat, elicotteri, piloti, hostess, direttori d’albergo, medici, baristi e dunque il popolo di New York, da intendersi come il popolo americano, devoto alla religione civile dell’agire in comune (“lavoro di squadra” lo chiama qui accanto Ghisi Grutter).
Sono loro i salvatori capaci di sanare la ferita di ciò che è accaduto nel 2001?
Il regista di tanti importanti film tra i quali Mystic River, non ha mai nascosto l’appartenenza alla lobby delle armi, la National Rifle Association né la granitica la fede repubblicana che lo anima.
Accusato di fascismo quando interpretava l’ispettore Callaghan, il “Dirty Harry” pronto a sbattersene della legalità (cinema e vita temo siano abitati da simili personaggi), ha insistito nel coltivare una faccia conservatrice che appare e scompare a seconda della qualità dei suoi lavori.
Una faccia legata al pensiero populista. Quel pensiero in altalena tra manifestazioni progressiste e reazionarie attraversa non solo il partito repubblicano americano. Ne sappiamo qualcosa noi che osserviamo le posizioni illiberali di Viktor Orban, Farage, Marine Le Pen o gli incendi appiccati in Italia dalla Lega, dai 5Stelle ma anche – se pure in modo meno rabbioso e più demagogico – dall’(ex) premier durante la campagna referendaria anticasta, antimediazione che ha condotto.
Nella stessa intervista a Esquire, il regista ottantaseienne si è scagliato contro la “pussy generation”, le fighette che accusano gli altri di razzismo qualsiasi cosa dicano: “Ma andate a quel paese… sono tempi davvero tristi questi” ha concluso.
Tuttavia, in tempi di correnti minacciose che percorrono il nostro mondo, la testimonianza del comandante Sullenberger, bravo nel proprio lavoro, umile eroe capace di difendere l’esperienza contro la teoria, la burocrazia, l’istituzione, i protocolli, suona quasi scontata. Prevedibile. Perché, nel fulgido Sully c’è una zona d’ombra che sembra soffocare il racconto di quello slancio collettivo. Quasi che Eastwood non riuscisse a staccarsi dal peso delle sue convinzioni.