Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

Sul limite. A proposito del lavoro delle donne

30 Agosto 2016
di Bia Sarasini

donneallavoroda Alternative per il socialismo n.41, che sarà presentato a Roma, martedì 6 settembre, ore 17,  presso la Fondazione Basso, via della Dogana Vecchia 5 con Alfonso Gianni, Maria Luisa Boccia, Francesco Rappelli, Fausto Bertinotti

Di che cosa si parla oggi quando si parla di lavoro femminile? La domanda non è una figura retorica, infatti la gamma delle risposte è ampia, va dai dati su occupazione e disoccupazione, ai temi della femminilizzazione del lavoro. Senza escludere la vite precarie, la messa al lavoro di ogni eccedenza, compreso il corpo, fino a una revisione della nozione stessa di lavoro. Temi e aspetti che qui è possibile solo sfiorare. Per quanto possibile l’approccio al tema tende a considerare il lavoro dal punto di vista soggettivo, cioè dal posto che occupa nella vita delle donne e degli effetti che produce.

Perché il lavoro è questione centrale per le donne oggi. Il lavoro che non c’è, il lavoro precario, il lavoro stabile che inghiotte con le sue esigenze il tessuto della vita quotidiana. Lo è, centrale, in modo diverso che dal passato, quando era tutto chiaro. Il lavoro per le donne è stato per decenni un obiettivo, una conquista, è stato la strada maestra per l’emancipazione. Anche il femminismo degli anni Settanta, pur ponendo l’accento sulla liberazione del soggetto femminile, non ha mai messo in dubbio il lavoro come fondamento dell’autonomia delle donne, il guadagnarsi la vita come strumento fondamentale per sottrarsi all’autorità esercitata dagli uomini, dal patriarcato. Lottare per il lavoro era una battaglia politica e culturale, si lottava per cambiare il proprio destino rinchiuso all’interno della famiglia.

Il lavoro, questione centrale della vita delle donne

Oggi che le donne lavorino non è più messo in dubbio, fa parte della realtà, delle normali aspirazioni di una ragazza, di una donna. Eppure intorno alle donne che lavorano, rimangono enormi problemi, soprattutto quelli che riguardano il produrre e riprodurre, un nodo mai del tutto sciolto, e che oggi viene rubricato nella categoria della “conciliazione tra vita e lavoro”. Una categoria ambigua fin nella sua definizione, anche se ha il merito di indicare e rendere visibile le donne che lavorano. È un successo o una delusione? E di quale lavoro si parla? Fotografare la realtà del lavoro femminile è fare emergere una pluralità di voci e di esperienze. Cosa c’è in comune tra una giovane donna intorno ai trent’anni che si sente condannata alla precarietà a vita e una sessantenne, o oltre, costretta all’inseguimento di una pensione che viene spostata sempre più in là? La diversità di età e di vita porta a conflitti o a solidarietà?

Negli anni recenti la generazione che ha aperto la strada del lavoro per tutte, come è successo per la prima volta in una dimensione di massa in Italia a chi è nata tra il 1948 e il 1953, (ricavo i dati da Marina Piazza, Le ragazze di cinquant’anni, Mondadori 2000) è stata presa di mira dalle ragazze, che cresciute come sono con l’idea che per loro il lavoro sarebbe stato un cammino senza ostacoli, si sono sentite defraudate del loro futuro. La durata della crisi ha però cambiato punti di vista, e portato al riconoscimento di obiettivi comuni. La pensione è un miraggio, per chi lavora con le regole del Jobs Act. Ma la riforma Fornero ha cambiato i progetti di vita e le disponibilità economiche delle donne adulte. Più difficile vedere in loro una controparte. Il conflitto, da generazionale, si fa sociale.

Qualche dato sul cambiamento diffuso

 Prima di tutto i dati, riferiti al decennio 2004-2014 (fonte Istat, Come cambia la vita delle donne http://www.istat.it/it/files/2015/12/come-cambia-la-vita-delle-donne.pdf), con una notazione a margine. Fa parte del cambiamento e delle battaglie per ottenerlo che le statistiche di genere oggi siano disponibili nei dati mainstreaming (e qui aggiungo l’auspicio che i cambiamenti al vertice dell’Istat, con l’allontanamento molto discusso della direttrice del compartimento sociale Linda Laura Sabbadini, non mettano in discussione questa buona pratica). Alcuni dati generali sono utili a ragionare sul lavoro, a cominciare dallo stato attuale di matrimonio e maternità. Cambia l’esperienza di vita delle donne giovani. Tra i 25 e i 34 anni diminuiscono le donne che vivono in coppia senza figli (da 15,3% a 12,9%) o in coppia con figli (da 36,4% a 33,1 %), mentre crescono le donne che rimangono nella famiglia di origine con i genitori e quelle che vivono da sole, che raggiungono il 7,9%. Anche nelle due fasce di età successive 35-44 anni e 45-54 anni diminuisce di circa sei punti la percentuale di donne in coppia con figli, che sono circa il 60%. Aumentano madri single e donne sole. Tra i 55 e i 64 anni la dinamica è la stessa, le donne in coppia con figli sono il 37 %, le single raggiungono il 13%. Mentre circa un terzo delle donne di queste età vive in coppia senza figli, senza grandi differenze con il passato. Ancora un dato, quello che più degli altri indica il cambiamento profondo, in stretta correlazione con la situazione lavorativa. Nel 2013 l’età media del matrimonio per le donne italiane era 31,1 anni (+1,6 anni rispetto al 2004). Le italiane, ovvero le donne residenti in Italia comprese le straniere, hanno 1,39 figli a testa, e l’età media in cui li mettono al mondo è di 32 anni, un anno in più rispetto a prima)

Sono le cifre che danno più di ogni altra l’idea del mutamento che ha segnato la vita femminile: ancora un buon terzo delle donne che oggi hanno superato i sessant’anni si sono sposate e hanno avuto figli già a ventidue anni, in ogni caso in media le donne oggi quando si sposano hanno cinque anni di più che nel 1960.

Occupazione e disoccupazione

E ora guardiamo le cifre sul lavoro. Come è noto c’è stata una maggiore tenuta dell’occupazione femminile nella crisi, eppure in Italia rimane inferiore alla media Ue28 del 59,8% e si attesta nel 2014 al 46,8%. La crisi ha fermato la crescita degli anni precedenti, dopo un aumento dal 2004 al 2008, il tasso dell’occupazione femminile scende negli ultimi cinque anni (dal 47,2 per cento nel 2008 al 46,8 per cento nel 2014). Parallelamente, la caduta dell’occupazione maschile negli anni della crisi e la minore crescita tra il 2004 e il 2008 comportano una diminuzione del gap di genere nel tasso di occupazione, anche se le distanze restano ancora molto evidenti (17,8 punti percentuali). Nell’insieme del decennio esaminato, il tasso di occupazione 15-64 anni è sceso dal 57,6 per cento nel 2004 al 55,7 per cento nel 2014, effetto negativo della crisi economica degli ultimi anni che ha annullato la crescita della prima parte del periodo. Nel complesso, la crescita dell’occupazione femminile nel periodo 2004-2014 è più che dimezzata in confronto al precedente decennio, e il tasso di occupazione femminile aumenta soltanto per le donne con almeno 50 anni, mentre rimane sostanzialmente invariato per le 35-49enni e diminuisce per le più giovani. Il calo delle occupate 15-34enni riguarda le italiane, non le straniere.

Nel 2014 le disoccupate sono il 13,8 (gli uomini 11,9), con un incremento più elevato per gli uomini, proprio per la minore incidenza della crisi sul lavoro femminile. Fino al 2011 le disoccupate sono sotto il milione di unità, nel 2014 sono un milione 400.000. E sempre nel 2014, l’aumento della disoccupazione generale riguarda per più della metà le donne. Interessante il cambiamento di età.

Diminuisce l’incidenza della fascia di età più giovane e aumenta quella più adulta: la quota di donne in cerca di occupazione con meno di 35 anni scende dal 61,3 per cento nel 2004 al 50,2 per cento nel 2014, mentre aumentano le donne di 50 anni e più (dal 7,3 per cento all’11,9 per cento). Tale andamento, come per gli occupati, solo in parte è dovuto agli effetti demografici: sul totale della popolazione, infatti, la quota delle donne giovani è diminuita in maniera meno che proporzionale a quella delle disoccupate (-4,7 per cento e -11,1 per cento, rispettivamente). Per concludere questo panorama riportiamo i dati sulla differenza nei tassi di disoccupazione di uomini e donne, che continua ad essere a svantaggio di queste ultime. La crisi ha comunque impresso un impulso alla convergenza dei differenziali di genere, dovuto al più forte peggioramento della componente maschile: tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione maschile sale di 6,4 punti percentuali a fronte di 5,3 punti di quello femminile. Conseguentemente il divario di genere nel tasso di disoccupazione passa da 3 punti percentuali nel 2008 a 1,9 punti percentuali nel 2014.

Fino ai 24 anni il divario è dovuto soprattutto alla più alta percentuale di ragazze che studiano e si laureano, mentre nelle età più adulte si fa strada il tema della difficoltà di conciliare vita e lavoro. Molto interessante il fatto che il tasso di occupazione delle donne che vivono da sole è simile a quello degli uomini, in particolare tra i 30 e i 49 anni di età. Il distacco aumenta per quelle in coppia senza figli, più marcato per le madri.

Vita e lavoro

L’aumento dell’occupazione femminile, la normalità per le donne di pensarsi al lavoro, ha fatto emergere con forza i problemi della relazione, per non dire del conflitto, tra il tradizionale ruolo femminile e il lavoro. Perché le donne vogliono lavorare e vogliono poter avere figli, sposarsi o comunque avere relazioni, avere insomma una vita che non coincida con il lavoro. Un desiderio, una necessità che di per sé mette sottosopra la classica divisione sessuale del lavoro. Che si basava sulle sfere differenti, la sfera pubblica, quella del lavoro e della politica, del tutto maschile, e quella privata, della famiglia, appannaggio della donna. Una costruzione sociale del passato, ma che si estende ancora nel presente. È un cambiamento tumultuoso che le donne, tutte le donne italiane, hanno portato nella vita quotidiana, e che i dati mostrano con evidenza cristallina. Penso all’innalzamento di età per il matrimonio e la procreazione, oltre che alla riduzione del numero dei figli e l’ingresso nel mercato del lavoro. Avvenimenti essenziali e semplici della vita che ora hanno una dimensione di massa, non sono più la sfida di una minoranza di esploratrici. Ebbene, per questo enorme cambiamento non c’è riflessione e rappresentazione adeguata nella cultura, nella politica, nei media, nelle misure sociali.

Non c’è da stupirsi che nelle ragazze le maggiori preoccupazioni, oltre che su carriere inimmaginabili e retribuzioni sempre da contrattare e sempre troppo al limite, alle prese con la precarietà e i voucher, si concentrino sulla possibilità di vivere una vita che da una parte non sia solo lavoro, dall’altra permetta di scegliere di essere madre senza pensare di diventare una reclusa in casa. È come se la presenza di tante donne nei luoghi di lavoro, tutti costruiti intorno agli uomini e ai loro stili di vita, portasse un maggior numero di persone, perlopiù donne ma non solo, a prendere coscienza di essere prigioniere di ingranaggi impersonali e faticosi, troppo per qualunque ambizione. Si mette in gioco una nuova soggettività femminile che vada oltre la logica del lavoro come conquista identitaria. In fondo si tratta di fare i conti con il successo. Il lavoro oggi non è un luogo simbolico da conquistare, piuttosto un territorio da gestire e rendere più simile a se stesse. Un luogo da considerare con cautela per non scoprire che invece che conquistare il lavoro, è l’economia – il neoliberismo – ad avere messo al lavoro la vita femminile, sottomettendone l’eccedenza che non rientrava nella logica economica.

È qui la sfida di oggi, fare diventare la qualità del lavoro femminile, la capacità della relazione e della cura la misura di tutto, senza vendere tutto al mercato. Una sfida che va ben oltre l’inevitabile rivendicazione di posti per sé. Fa parte dell’assunzione di responsabilità delle donne verso se stesse e il mondo. Con la consapevolezza che il conflitto racchiuso nell’oggettività dell’esperienza di lavoro femminile, viene riassorbito, dissimulato, sciolto nell’esperienza quotidiana. Eppure i dati sono lì, pietrosi. L’asimmetria del tempo di lavoro dedicato alla famiglia, da parte delle donne in coppia con figli, rimane gigantesca, più di 6 ore contro 1 ora e qualcosa del partner. Eppure, con lentezza, la differenza diminuisce. E non perché aumenti il tempo maschile, ma perché le donne italiane progressivamente dedicano meno lavoro alla cura della casa. Fine della biancheria perfetta, delle lenzuola sempre perfettamente stirate?

Aumenta, invece, il ritorno a casa quando ci sono dei figli. Nel 2012 il 62,8% delle neo-madri era occupata al momento della gravidanza (erano il 63,2% nel 2005), mentre due anni dopo risultano occupate al 48,8%, in particolare donne che lavorano nel privato. Sono soprattutto le donne che hanno più di 35 anni, più inserite nel mercato del lavoro e con un’istruzione più elevata e con posizioni di lavoro con maggiore responsabilità, a lamentare le difficoltà legate al doppio ruolo di madre e lavoratrice. Le lavoratrici a tempo indeterminato lamentano maggiormente problemi di conciliazione rispetto a chi lavora a tempo determinato, e in misura crescente rispetto al 2005 (38,8 % vs. 30,5 %). Le madri che svolgono un lavoro dipendente a tempo pieno dichiarano difficoltà nel 52,5 per cento dei casi (contro il 48,0 per cento nel 2005).

Accanto, vi sono i dati inesorabili della retribuzione femminile. Secondo il Gender Gap Report 2016 in Italia una donna in media guadagna 26.795 all’anno, 3620 euro in media all’anno meno di un uomo (29.895 euro), naturalmente si parla di stipendio lordo. I dirigenti uomini guadagnano 11.000 euro in più delle dirigenti, a parità di lavoro. Rispetto al 2014, il gap delle retribuzioni è cresciuto ulteriormente: gli stipendi degli uomini sono saliti dello 0,6%, quelli delle donne hanno subito un taglio dello 0,7%.

Una vita difficile

I dati compongono un quadro frastagliato, che si è tentati di inseguire fin nei minimi dettagli. Ma un punto è chiaro. Il lavoro delle donne è molteplice, e tuttora si trova al limite: tra la casa, gli affetti e il mondo del lavoro. E su questo limite incontra difficoltà, problemi non risolti, desideri e progetti da cui l’insieme della vita sociale non si lascia investire. L’aumento delle single, la quasi equivalenza dei dati della loro occupazione con quella maschile, indicano con molta chiarezza che tuttora il modello prevalente, quanto a soggettività operante nel lavoro, è quella maschile. Se assumi uno stile, una modalità di vita da maschio, non incontrerai problemi. Ma se vivi da donna avrai una vita difficile, in un paese che è ancora abbarbicato al modello della moglie e madre. E figlia, se si pensa alle donne più che adulte che accudiscono i loro genitori nell’ultima parte della vita. Donne che se lavorano, devono affrontare quella condizione a loro spese. Non solo metaforiche, anche materiali. Se si considera la scarsità degli asili nido pubblici, di cui sono aumentati i ticket richiesti, sia la necessità di fare ricorso ad aiuti. Una donna che lavora spesso investe parte del suo stipendio nel pagare una donna che lavori per lei, al suo posto, in casa. È un effetto, per certi aspetti paradossali, del lavoro femminile, che proprio perché sottrae le donne alla vita domestica, fa aumentare i posti di lavoro. Nei servizi, per esempio.

Come ha scritto di recente Maurizio Ferrera, commentando i dati del febbraio 2016, a proposito di un’occupazione femminile sostanzialmente statica: “Anzi, nel mese di febbraio quasi cinquantamila donne sono diventate inattive per “scoraggiamento”. Difficile trovare un posto, ma ancor più complicato conciliare le esigenze familiari con un’eventuale lavoro. Le donne che restano intrappolate nella famiglia sono 2,3 milioni. Il 40% possiede un diploma superiore o una laurea: uno spreco enorme di abilità e talenti. Soprattutto al Sud, dove risiede quasi la metà delle scoraggiate”. Ferrera, che da quasi dieci anni propone di puntare sul lavoro delle donne, (Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farebbe crescere le donne, Mondadori 2008), aggiunge: “Sui circoli virtuosi del lavoro femminile si discute ormai da un decennio. Banca d’Italia stima che se l’Italia avesse il tasso di occupazione medio Ue il Pil farebbe un balzo in avanti di 7 punti. Eppure niente. Il vero, grande problema è la conciliazione. Mancano servizi che consentano a madri e figlie di “esternalizzare” almeno in parte il lavoro di cura”.

Se il lavoro diviene donna

Ancora più paradossale è l’effetto speculare, rovesciato eppure reale, che cambia i modi produrre e lavorare. Quello stesso lavoro femminile che può far crescere il Pil, con risultati concreti nell’economia reale, diventa un modello per tutti i lavori. Assimilato, integrato, masticato dal sistema di produzione neo-liberista. Ciò che era separato, e tenuto fuori dal mondo della produzione, viene invece ingerito, interiorizzato ed elevato a modello generale, che plasma la vita di tutti. Affetti, corpi, qualità, attenzione. Quello che veniva riservato all’intimità, alla vita domestica non solo viene portato al mercato. Ma viene richiesto, come parte integrante della prestazione lavorativa. Prima di tutto alle donne. Nel lavoro, sempre più tecnologico, si richiede sempre meno la forza, e sempre più la cura.

Per spiegarmi meglio riprendo alcune righe da Il lavoro di una donna, di Carla Casalini (ManifestoLibri, a cura di Alessandra Mecozzi), giornalista che ha documentato con passione su il manifesto le vicende del lavoro. Nel luglio 1979, a proposito di un seminario delle delegate Flm a Napoli, scriveva: «Perché dunque una donna va al lavoro, quali sono le sue ragioni profonde?. In molte rispondono ‘per non essere come mia madre’, ‘per non finire come lei’. Ma come è finita lei? Annegando tutto nel ruolo affettivo, ‘e quando una donna si pone sul piano affettivo si accorge che il risultato non torna mai, che lei da sempre molto di più di quello che riceve. Io perciò sono fuggita dal fantasma di mia madre e quando ho cominciato a lavorare non volevo avere nessun tipo di rapporto con i colleghi, e volevo un lavoro asettico. L’affettività doveva restarne fuori, perché io lì sapevo che i conti non tornavano mai’».

Il punto è sempre quello, i conti che non tornano. È un documento prezioso, questo testo, perché segna un passaggio cruciale della soggettività politica delle donne. E nello stesso tempo è un reperto di un tempo ormai concluso, perché è proprio questa scelta – tenere fuori dal lavoro la propria affettività – che è sempre più ostacolata. Anzi, il nuovo lavoro (cfr. Cristina Morini, Per amore o per forza: Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte 2010) richiede che tutto sia messo al lavoro. L’intera vita. Compreso il corpo, i corpi. Accenno soltanto che il modello include il Sesso al lavoro, per citare Roberta Tatafiore (Il Saggiatore, a cura di Bia Sarasini, 2012), ovvero le prestazione delle e dei sex-worker, e la recente vicenda della gpa, la gravidanza per altri. Con tutte le controversie che queste tematiche, ma anche esperienze, portano con sé, a cominciare dalla definizione di lavoro.

Per far tornare i conti, per restare alle parole che arrivano dal lontano seminario delle delegate Flm, organizzazione unitaria dei metalmeccanici che appartiene a una stagione sindacale conclusa, quando è finito il lavoro fordista, occorre mettere in campo soggettività, conflitto, progetti, desideri. Il dramma è che il neo-liberismo sembra capace di assorbire tutto, anche la frustrazione, anche la rabbia. Eppure…

Racconti

Katniss Everdeen, la protagonista del ciclo Hunger games di Suzanne Collins, una trilogia best -seller per Young Adult che sono diventati film di successo, a 16 anni è una cacciatrice di frodo. Con arco e frecce cattura animali che vende sul mercato, e con i proventi riesce a mantenere la madre e la sorella. Ne conosce perfettamente il valore, lei sa quanti ne deve catturare, per comprare il prezioso pane che spesso le manca. Quando arriva a Capitol City, dove avranno luogo i giochi che faranno di lei il simbolo della rivolta, la città-capitale che sfrutta e lascia nella fame tutti i distretti che domina mentre i cittadini vivono nel lusso più sfrenato, Katniss calcola con precisione quanto le occorrerebbe cacciare-lavorare, per comprare la tavola imbandita di squisitezze a lei sconosciuta che si trova davanti. Cioè può riconoscere con chiarezza l’ineguaglianza e lo sfruttamento. È con molta evidenza un calcolo “primitivo” sul valore del lavoro, che non passa attraverso il denaro. Un calcolo che chi lavora oggi non può fare. È la stessa chiarezza, in condizioni diverse, di Jane Austen – che Thomas Piketty mette in luce nel suo Il Capitale nel XXI secolo (Bompiani 2014) – che sa bene che il lavoro delle sue protagoniste, che appartengono al mondo dei piccoli proprietari, delle piccole rendite, è trovare il marito giusto. Valutare accuratamente i patrimoni, proprio e altrui, è una competenza indispensabile.

Valutazioni chiare che sono quasi impossibili, nel contesto di un sistema economico che tende a confondere, livellare, cancellare il valore reale del lavoro come quello delle ricchezze accumulate. Perché il lavoro è svalorizzato, e le ricchezze sempre più enormi. Un divario che non deve essere visto.

In questo senso, per riprendere la domanda iniziale, il lavoro femminile oggi è centrale. Perché squaderna l’insieme delle condizioni lavorative attuali, delle donne e degli uomini. Perché quel limite su cui si trovano le donne riguarda anche gli uomini, che hanno perso il lavoro totalizzante nel quale si inabissavano, ma su cui avevano costruito soggettività, lotte, identità.

Produrre e riprodurre riguardano tutte e tutti. Come sempre del resto. Oggi è possibile ri-organizzare, ri-discutere, ri-definire. Farne una leva di cambiamento.

Quindi asili nido, investimenti in forme elastiche di sostegno a lavori di cura hanno senso se non sono ghettizzati, se non sono appannaggio delle donne che se ne devono occupare in esclusiva, se non vengono considerati nell’ottica della “conciliazione”. Insomma, se fuoriescono dalla logica del patriarcato, a cui il neo-liberismo sembra dare una forma contemporanea. Se fanno parte di processi di discussione dei processi di organizzazione della vita e del lavoro, se investono le città, a loro volta trasformate dal post-fordismo e dal diffondersi del lavoro nelle case. Sono sempre più numerose le donne che mettono al centro delle proprie riflessioni, preoccupazioni e progetti, il complesso legame che intrattengono con la città, sia come amministratrici pubbliche, politiche, professioniste, architette o urbaniste, sia come singole o gruppi di cittadine come per esempio avviene a Madrid e Barcellona.

Un primo passo è raccontarla, concettualizzarla, la dimensione ampia del lavoro delle donne. Una dimensione che è pratica, reale e rompe tutte le separazioni e divisioni che fondavano il lavoro. Un lavoro trasformato, da sottrarre all’alienazione, tuttora reale e non riconosciuta, proprio perché si realizza nelle forme contemporanee del neo-capitalismo. Questa è la posta in gioco.

Tags:

Featuring Recent Posts WordPress Widget development by YD