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E se il burkini aiutasse l’integrazione?

20 Agosto 2016
di Letizia Paolozzi

images-2Non ho certezze sul burkini (unione dei termini burka e bikini), costume da bagno disegnato da una stilista australiana per donne musulmane.
In Francia, alcuni sindaci (a Cannes, a Pas-de-Calais, in Corsica) l’hanno vietato (multe di trenta euro) come “abbigliamento di manifesta natura religiosa” indossato nello spazio pubblico. Non a scuola; non in un ospedale. Ma sulla spiaggia. In acqua. Accanto ai topless, tanga, bikini.
Scontro di civiltà, tra noi, spogliate e loro, coperte?
Il primo ministro francese Manuel Valls ha detto (intervista sul quotidiano regionale La Provence del 17 agosto) di “comprendere” e “sostenere” il divieto dei sindaci. La Francia ha un problema con i musulmani e l’islam. Dopo Nizza e dopo l’uccisione del parroco vicino a Rouen, i francesi si considerano sempre più in lutto. Ansiosi, angosciati: per loro quella sorta di costume va controcorrente. Va “contro i nostri valori”. D’altronde “il burkini non è una nuova marca di costume da bagno, una moda. E’ la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato sull’asservimento della donna”.
Per Valls – interpretazione dettata dalla tronfia sicurezza della laicità? – la donna sostiene il proprio asservimento.
A me sono parse sagge le parole del vescovo Nunzio Galantino (sul Corriere della Sera del 18 agosto). “Questo della guerra sui simboli è un terreno sul quale mi è difficile capire fino in fondo la Francia”. E ancora: “La libertà da riconoscere ai simboli religiosi va considerata alla pari con la libertà di esprimere i propri convincimenti e di seguirli nella vita pubblica”. Persino Giuliano Ferrara ha condiviso sul Foglio questo buon senso, mentre molti commenti favorevoli al “laicisimo” di Valls hanno assunto toni genuinamente fondamentalisti.
Ma l’indumento timorato è un simbolo e dunque, al di là della sfida, del fenomeno di moda, del credo religioso, del pudore, della modestia, dell’imposizione maschile e della comunità, suggerisce interrogativi esplosi nella intensa discussione tra femministe, scrittrici (ricordo il pezzo sull’Huffpost.com di Ikram Ben Aissa), uomini, intellettuali, politici. Non si tratta di inutile brusio ferragostano sulla bontà o meno della decisione di multare gambe e braccia coperte.
Dal brusio emergono domande sul rapporto tra i sessi; sul controllo maschile del corpo femminile; sulla violenza che perseguita le donne. Nella civiltà occidentale e in quella islamica. Nel mondo musulmano e nel nostro: senza negare le differenze che esistono e che sono grandi.
Mentre della libertà femminile (e di quella degli omosessuali) non abbiamo sentito parlare durante le “primavere arabe”, dalle nostre parti stereotipi e pregiudizi verso un sesso o verso l’altro non pesano allo stesso modo. Cosicché, ci sono uomini che vogliono decidere al posto di lei. E altri uomini che la guardano con sospetto, fermandosi all’esteriorità sociale, di ruolo.
D’altronde, modesto episodio estivo anch’esso rivelatore, Riccardo Mannelli, sul Fatto, ha fatto satira (non priva di sessismo) su Maria Elena Boschi e lo stato delle cos(c)e. La satira ha una sua sacralità e comunque, hanno osservato i commentatori, non è stata satireggiata pure la gobba di Andreotti e il pisellino di Spadolini?
Strano criterio che, annullando la differenza, cerca di restaurare lo schema patriarcale che assegnava alle donne il ruolo di “secondo sesso”.
Ma su questo i tempi sono cambiati. Per aver passato un titolo sulle atlete italiane brave e “cicciottelle” un giornalista è stato immediatamente rimosso. Un eccesso che non condivido, ma che, appunto, parla di qualcosa di irreversibile nel nuovo stato dei rapporti tra i sessi.
Infine, sul burkini che dovrebbe garantire uno stato totalmente pudico della carne, mi chiedo: dobbiamo proprio escludere che rappresenti un modo di assaggiare l’integrazione? Senza divieti, ma attraverso sguardi, sfioramenti, incontri, scoperta di abitudini diverse sulle spiagge francesi, non potrebbe verificarsi magari la voglia di mettersi un due pezzi?

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