Pubblicato sul manifesto il 7 giugno 2016 –
I commenti sui risultati del primo turno delle elezioni comunali insistono ossessivamente sul significato nazionale del voto: il successo del movimento 5 stelle, le difficoltà del Pd, le difficoltà ancora maggiori del centrodestra e in particolare di Forza Italia, ecc. Il tutto riferito essenzialmente ai casi di Roma, Milano e poche altre delle città maggiori. Si può capire, ed è difficile pretendere da un sistema mediatico come quello italiano, così tradizionalmente attratto dal centro della politica istituzionale, una disanima più attenta delle diverse realtà locali.
A me pare che i risultati siano molto più articolati e interessanti. In gioco è l’elezione dei sindaci, parola e funzione di cui si è un po’ perso il senso dopo il tramonto della stagione seguita, alla fine degli anni ’90, all’attuazione della nuova legge sull’elezione diretta ( con il ruolo dei Bassolino, Rutelli, Cacciari, Orlando ecc.): ne ha parlato Massimo Franco sul Corriere della sera di sabato scorso. Citando tra l’altro un paradosso: il fatto che alcuni sindaci diventerebbero parlamentari, senatori, se passasse la riforma costituzionale sui cui si voterà nel referendum in ottobre, viene spesso citato negativamente come un modo di arraffare una forma di immunità rispetto alle possibili malversazioni, piuttosto che come una occasione per realizzare quel ” federalismo municipale” che molti amministratori locali e anche studiosi della materia da tempo sostengono per migliorare il funzionamento dello stato nel nostro paese.
Vale la pena di ricordare che il significato della parola sindaco deriva dai termini greci syn, che vuol dire con, insieme, e dike, cioè giustizia. Il sindaco è dunque colui che agisce per la giustizia in una dimensione collettiva, e già in greco e nel tardo latino indicava il rappresentante legale di un interesse collettivo e di una comunità locale. È la stessa radice da cui derivano le parole sindacato e sindacare, verbo che allude a una attenta ricognizione dei fatti per scovare errori e crimini.
Ma torniamo ai risultati. Mi colpisce la varietà, in cui denominatori comuni appaiono la voglia di cambiamento, ma anche il riconoscimento di amministrazioni efficienti, frammisti alle spinte populistiche e alla critica erga omnes astensionista. A Torino si vedrà quale delle due tendenze incarnate da Fassino ( che ha riconosciuto la gravità di una “situazione sociale” ben lontana dall’essere mitigata) e dalla Appendino alla fine prevarrà. A Cagliari la sinistra unita, da Rifondazione al Pd, nel riproporre Zedda vince al primo colpo. A Salerno l'”erede” dell’era De Luca – sostenuto da una coalizione di liste “progressiste” e civiche in cui nemmeno compare, se non mi sbaglio, il simbolo e il nome del Pd – è eletto a furor di popolo col 70 per cento. A Napoli De Magistris tiene insieme credibilità locale e contestazione “antisistema” del centro istituzionale, molto aiutato dalle debolezze, i compromessi ( se non di peggio) e le baruffe interne del Pd locale ( come ha dovuto ammettere Renzi).
Più che un test sugli equilibri politici nazionali dati, direi che il voto chiede il cambiamento per tutti: i grillini devono dimostrare di saper governare, la sinistra di essere sinistra e magari di unirsi, la destra di trovare un nuovo baricentro. Parlano di questo anche le innumerevoli liste civiche nei comuni più piccoli. Alludono al trasformismo ma anche alla forza di una identità locale che, se finalmente riconosciuta e riorganizzata, potrebbe essere determinante per far funzionare uno stato in grandissimo affanno. Ripartendo dalla capacità di tenere insieme azione collettiva e giustizia (legale e sociale). Vale a dire la politica?