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Maternità surrogata, dubbi e certezze

12 Marzo 2016
di L.Paolozzi, N. Tiliacos, F.Galofaro

images-3Pubblichiamo tre interventi nella discussione sulla “maternità surrogata”, apparsi nel quotidiano on-line della rivista Alfabeta2, di Letizia Paolozzi, Nicoletta Tiliacos e Francesco Garofalo.

I fantasmi della maternità

di Letizia Paolozzi

«È nato un bambino». Va da sé che è nato perché una donna ha deciso di metterlo al mondo. In seguito quel bambino soffrirà, proverà piacere, dolore, amore. Muoverà i primi passi nel mondo anche grazie alle fate madrine che a volte affiancano, si avvicendano, si sostituiscono alla madre. Scrive Paul B. Preciado (sull’Internazionale dell’8 marzo): «È venuto il tempo di onorare i molteplici ed eterogenei legami che ci hanno costruito e che ci tengono vivi». D’altronde noi siamo le nostre relazioni, i nostri legami. Ancora nella pancia della mamma, e poi nella maturità e nella vecchiaia. Se ne può discutere eticamente, politicamente. E legislativamente. Il DDL Cirinnà ha cercato di farlo. Attraverso l’articolo 5 (stepchild adoption), poi stralciato, nel quale era indicata la possibilità dell’adozione, da parte di uno dei componenti di una coppia omossessuale, del figlio, naturale o adottivo, del partner.
Uno stretto legame tra ricorso alla maternità surrogata e adozione non è dimostrato. Eppure quell’articolo ha provocato tensioni, risvegliato il fantasma dell’avversione per gli omosessuali (che pareva scomparso) e della disistima (all’apparenza sconfitta) nei confronti delle donne. Nonostante non siano loro i «richiedenti» principali della maternità surrogata, bensì le coppie eterosessuali (sposate) con problemi di sterilità, la pubblica riprovazione si è appuntata sulle coppie di maschi omosessuali. È intervenuta pure la vicenda del personaggio pubblico Nichi Vendola e del suo compagno a spargere sale sulla ferita. Omogenitorialità sentita come una minaccia?
Se è così, ha ricominciato a spaventare chi – donna o uomo – vede nell’adozione e nella filiazione da parte di e delle omosessuali la tomba della famiglia tradizionale e del matrimonio (al quale verrebbero assimilate le unioni civili); turba i sonni di quante scoprono nella pretesa di paternità biologica del gay una più generale voglia maschile di sostituirsi alla madre. Anzi, di eliminarla. Saremmo al ritorno in forze del patriarcato.
Il depennamento dell’articolo 5 ha lasciato delle creature per metà orfane. Un gesto violento nei confronti della vulnerabilità e fragilità dei già nati. In questa situazione, con tanti nodi da sciogliere, le posizioni si sono radicalizzate. Invece di provare ad attraversare i passaggi simbolici e sociali, si preferisce saltarli supponendo di avere già le conclusioni in tasca. Eppure conosciamo una varietà di situazioni e di storie: donne che abortiscono e dopo piangono disperate; altre che dopo sorridono. Donne che portano un figlio nella pancia per amore o perché credono che la famiglia con quel terzo si rinsalderebbe quando compaiono le prime crepe. Conosciamo uomini che fuggono all’idea di diventare padri; altri che invidiano la potenza femminile nel riprodursi; altri ancora che suppongono di poter imitare, con l’aiuto della scienza, la maestria femminile dell’allevare. Conosciamo bambini che escono la domenica con due padri mentre stanno, durante la settimana, con due madri. Bambini che hanno perso le tracce dei genitori biologici, oppure che i genitori biologici hanno deciso di dare in adozione. Bambini venuti al mondo grazie a una o più donne. Bambini che avranno una domanda da porre sulla propria origine, sull’esperienza che li legava a quel ventre, a quei suoni.
Ascoltando le tante voci di madri lesbiche e padri gay, madri e padri single, coppie sterili e coppie che delirano sull’autonomia e l’individualismo, confesso che mi manca il coraggio di pronunciare un discorso scevro di ripensamenti e di dubbi.
Giusto difendere il corpo (e la mente) femminile; indicare dei limiti; diffidare delle prospettive aperte dalle tecnoscienze; rifiutare la mercificazione e l’assenso, in condizioni di necessità, alla gestazione per conto di altri. Ma come si quantifica la necessità? E poi, lei che «si presta», da soggetto pensante e incarnato della differenza sessuale, viene retrocessa a vittima sottomessa, mercificata, preda del neoliberismo. Non ci sarà misoginia in questa retrocessione? Mentre lui che sfida una genitorialità impossibile, risulta colpevole di egoismo, narcisismo sconfinato, desiderio senza limiti. Non ci sarà omofobia in questa colpevolizzazione? Vero è che il desiderio di paternità rappresenta qualcosa di più che un semplice capriccio o una concessione alla moda. Piuttosto indica l’aspirazione, forse confusa, a una famiglia «normale». Per contrastare, appunto, il pregiudizio nei confronti delle persone gay.
Certo, un uomo dovrebbe andarci molto cauto sulla relazione madre-figlio, dal momento che non la conosce direttamente. In fondo, anche nell’assistere al parto, osserva sempre a debita distanza quello straordinario evento. Non derubiamo la nascita alla competenza femminile: senza esaltarla, però, escludendo ogni altra relazione. Tanti anni fa si gridava: «L’utero è mio e lo gestisco io». Vogliamo scalpellarlo via dalla memoria? Peraltro, in questo scontro tra diversi protagonismi, c’è un bambino che rischia di essere dimenticato.
Vale la pena di continuare ad ascoltare e modificare le nostre sicurezze. A volte le oscillazioni sono preziose. Indicano che non è giusto chiudere le riflessioni e che sulle relazioni e sugli scambi, soprattutto sulla dipendenza e sulla cura, c’è ancora molta strada da percorrere

Orfani con cinque genitori

di Nicoletta Tiliacos

Era il 1986 – sembra già preistoria – quando il primo caso di maternità surrogata contrattualizzata secondo un accordo tra privati (il famoso “caso Baby M”) divise l’America. Una donna sposata aveva accettato, d’accordo con il marito, di farsi inseminare artificialmente da un uomo a sua volta sposato, con la promessa che, alla nascita, il bambino (in quel caso una bambina) sarebbe diventato legalmente figlio della coppia committente, dietro pagamento di un congruo compenso. La donna dopo il parto ci ripensò, si rifiutò di consegnare la piccola e i committenti ricorsero contro di lei in tribunale. Per la prima volta, nell’America che sacralizza gli accordi tra privati purché liberamente stipulati, i giudici si trovarono a dover decidere della validità di una transazione che aveva come oggetto la cessione di una gravidanza, quindi di un bambino. Era preistoria, l’abbiamo detto, e la gestante era anche la madre biologica a tutti gli effetti della neonata. Oggi, trent’anni dopo, per non correre certi rischi imbarazzanti la regola è di dividere in due l’apporto biologico materno: ovocita di una donna, utero di un’altra. Come dire: due madri biologiche, nessuna madre, una più una equivale a zero. Quanto a Baby M, alla fine di un lungo iter giudiziario – durante il quale i committenti “frodati” sostennero che la donna inadempiente aveva dimostrato la propria indegnità di genitrice proprio nel firmare il contratto con il quale si impegnava a cedere loro il figlio – la bambina fu affidata al padre genetico, quello che l’aveva commissionata, mentre la donna che l’aveva partorita, che era anche madre genetica, conservò solo un diritto periodico di visita.
Trent’anni dopo, ci si chiede perché continuare vietare la maternità surrogata, detta anche “di sostituzione” – o, meglio ancora, la “gestazione per altri”, definizione che omette pudicamente ogni pericoloso riferimento al materno – visto che “in tanti paesi si fa”. Non basterebbe solo regolamentarla per bene? Ci si chiede insomma perché, se c’è un incontro di libere volontà, non debba essere possibile il “dono” di una gravidanza a chi (per motivi di salute, di età o di sesso, nel caso di una coppia di uomini desiderosi di essere padri) non è in grado di avere figli per conto proprio. E ci si chiede perché limitare la libertà femminile, quando si esprime nella volontà di usare il proprio corpo con spirito imprenditoriale, visto che quel corpo ormai è una risorsa: vendere ovociti per le donne dell’est europeo (la costante universale è il desiderio di “bianchezza” dei bambini, e in questo le caucasiche sono indispensabili, unita a bellezza, altezza, all’occorrenza biondezza e altre virtù verificabili su appositi cataloghi), surrogare una gravidanza per le indiane o le messicane o le thailandesi o le nepalesi e le vietnamite (l’“incubatrice” può essere di qualsiasi colore) sono diventati altrettanti modi di incrementare bilanci famigliari troppo poveri. Che male ci sarebbe? Non è un’opportunità in più? C’è chi si prostituisce e chi fa figli per gli altri. Come scrivono le sociologhe australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby in “Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera” (DeriveApprodi), “la biologia riproduttiva umana è diventata una vera e propria forma di lavoro economico in alcuni settori chiave della bioeconomia”. E anche là dove più si accredita la versione ufficiale del dono solidale – l’America o il Canada o l’Australia delle lavoratrici più o meno precarie che, assai meglio pagate delle loro colleghe dei paesi emergenti, si mettono a disposizione di “progetti parentali” che le riguardano come strumenti – perché impedire a un’operatrice di call center di affittare l’utero per trenta-quarantamila dollari che non riuscirebbe mai a mettere insieme in un colpo solo, dandole così l’agio di pagare una scuola migliore per i propri figli?
Il filosofo Hans Jonas sosteneva che “la vera minaccia comportata dalla tecnologia fondata sulle scienze naturali non risiede tanto nei suoi mezzi di distruzione quanto nel suo tranquillo uso quotidiano”. Credo che per nessun argomento come la maternità surrogata o utero in affitto o gestazione per altri, questo sia vero. Lentamente è passata la convinzione che la frammentazione della generazione insita nelle nuove tecniche di procreazione artificiale (attorno alla culla di un nuovo nato possono affollarsi fino a cinque soggetti: due genitori committenti o “di intenzione”, donatrice di ovocita, donatore di sperma, madre gestazionale-partoriente) renda “neutro” l’apporto della gravidanza. Merce come un’altra, semplice pezzo di una catena di montaggio di cui servirsi – ed è un bel paradosso – in nome dell’amore che i genitori intenzionali (etero od omosessuali poco importa) già nutrono per un figlio che fortemente desiderano. E’ solo una circostanza da mettere tra parentesi, il fatto che l’utensile per ottenere il figlio sia una donna in carne e ossa, coinvolta ventiquattro ore su ventiquattro per nove mesi (in realtà di più, considerando la preparazione ormonale alla quale una donna non incinta deve sottoporsi per poter efficacemente accogliere l’embrione dentro di sé) e in un evento comunque critico come il parto.
Si dimentica però che la gravidanza è un unicum, che non esiste nulla che possa esserle assimilato. Un unicum, scrive in “Corps en miettes” (Flammarion), la filosofa femminista francese Sylviane Agacinski, come la nascita e la morte. “Non solo non assomiglia a nient’altro, ma non può essere pensato in analogia con altre cose”. Una gravidanza non interessa solo l’utero ma la totalità psicofisica di un essere umano di sesso femminile. Eppure quel dato di fatto evidente risulta sempre più oscurato dall’idea che esista un diritto a fondare una famiglia – nel senso di ottenere un figlio – in grado di legittimare qualsiasi metodo di procreazione. Compresa l’impensabile (ma ormai pensabilissima) compravendita di un bambino – perché di questo si tratta – che passa per la compravendita di un “servizio gestazionale”, di una “gravidanza delocalizzata”, di “fertilità esternalizzata”. Si sente parlare anche di questo, senza ironia. E invece (cito ancora la Agacinski) sono – dovrebbero essere – “le condizioni etiche e giuridiche della procreazione che devono decidere i mezzi possibili di fondare una famiglia”. E a decidere dovrebbero anche essere la nostra idea di persona, di diritti, di dignità dell’individuo in generale e delle donne in particolare, di ciò che è disponibile o non disponibile, anche assumendo l’ottica della maggior autodeterminazione possibile. Dovrebbe essere, a decidere, la nostra idea del mondo e delle relazioni tra le persone. Non ci si chiede mai abbastanza come mai la vendita di un rene, che pure è praticata nei paesi più poveri – anche lì c’è un mercato, per quanto clandestino, e anche lì c’è un incontro di volontà – continui a essere ovunque proibita, mentre si ammette solo il dono tra consanguinei: esattamente per impedire compravendite mascherate da solidarietà. Cioè per impedire quello che avviene sempre – davvero sempre – nella maternità surrogata, fatta eccezione per rari casi di accordo tra parenti. E anche lì spesso sono guai. Basti pensare al caso recente della coppia gay inglese in cui la sorella di uno dei due uomini ha offerto il proprio utero, salvo poi rifiutarsi, anche lei, di consegnare il bambino alla nascita (poi ha dovuto farlo). O i casi di accordo tra sorelle o tra madre e figlia, spesso precipitati in contenziosi sui ruoli e sulle responsabilità (come nella vicenda, ormai vecchia di una ventina d’anni, della madre australiana che ha portato in grembo e partorito il figlio genetico della figlia e del genero, e che poi ha rotto con entrambi perché pretendeva di trattare il nipote-figlio come una madre, e il giudice l’ha allontanata dal bambino).
E dire che nel caso della compravendita di un rene esisterebbe una giustificazione ben più pesante – salvare una vita – rispetto al soddisfacimento del pur comprensibile desiderio di un figlio. Invece no, non si può. Giustamente. Neppure, a giustificare l’ammissibilità del libero mercato di organi, può intervenire l’idea che “tanto si fa, quindi è meglio normare la pratica e renderla così più controllata e sicura per tutti” (argomento usato anche dai sostenitori della liceità dell’utero in affitto). Tutto si può, invece, tutto può essere ammissibile quando in ballo c’è un corpo di donna e quella sua “funzione” non separabile da lei. Là dove la maternità surrogata è legalizzata si accetta di programmare l’abbandono di un neonato e si pianifica serenamente quello che sarebbe altrimenti considerato inaccettabile. Separare subito il nato dalla madre che lo ha partorito, impedire l’allattamento al seno, scongiurare nella gestante-partoriente il sorgere di qualsiasi attaccamento all’essere che ha sentito muoversi dentro di sé e che ha messo al mondo. Impedire a quest’ultimo di vivere in quella continuità carnale e psichica con l’esperienza prenatale (sulla quale sono prodotti fiumi di ricerche) e che per qualsiasi bambino è considerata essenziale, e che può venir meno solo per motivi gravissimi, di forza maggiore: la morte o la grave malattia della madre, l’abbandono del figlio da parte di chi non lo vuole riconoscere, pur avendo accettato di partorirlo. Ecco perché i figli della surrogata sono sempre orfani, nonostante la sovrabbondanza di soggetti che contribuiscono alla loro venuta al mondo. E sono orfani anche perché sarà loro negata, nella stragrande maggioranza dei casi, la verità sulla loro origine, nel senso che non conosceranno mai la madre che li ha partoriti. Ed ecco perché mi pare che la pratica della maternità surrogata conti su una disumanizzazione dei due due soggetti più coinvolti: la madre e il figlio, quella coppia così sovversiva che da sempre si prova a dividerla e a depotenziarla.
Retorica del materno? Ma come mai la retorica stucchevole del dono, della solidarietà con chi non può avere figli, della infinita generosità e oblatività femminile deve funzionare solo per giustificare la maternità surrogata? Si ha un’idea di quello che si può leggere – fiumi di melassa, altro che retorica – nelle proposte di una qualsiasi delle agenzie che organizzano compravendita di bambini, sotto la rassicurante definizione di “gestazione per altri”? In un’inchiesta realizzata per il Corriere della Sera-La 27ora da Monica Ricci Sargentini, la responsabile di una clinica californiana, subito dopo aver spiegato che molte coppie preferiscono madri portatrici lesbiche, perché è disturbante l’idea che la donna abbia rapporti sessuali con un uomo mentre “fabbrica” il figlio, inneggiava al grande “banchetto d’amore” in cui consisterebbe l’intera faccenda.
Parlare di “dono” di “solidarietà”, di “altruismo”, in tema di maternità surrogata è abbastanza ridicolo. Non esistono, né in California né a Mumbai, donne benestanti disposte a esercitare il loro altruismo in questo campo. Dovrebbe bastare (ma evidentemente non è così) per squalificare la pratica della gestazione per altri, per rivelarne l’aspetto misogino, schiavistico. Un filo di continuità unisce la madre surrogata che in Florida o in California si impegna, nero su bianco, a osservare uno stile di vita regolato nei minimi particolari, al fine di consegnare un prodotto privo di difetti, alla donna povera o poverissima indiana, che trascorre spessi i nove mesi di attesa in fattorie procreative dove è sicuramente ben nutrita ma poco meno che segregata (compenso mai superiore agli ottomila dollari: questo decreta il mercato). Tutto ciò, in attesa di un’ulteriore, grande mutazione antropologica. Lo ha prefigurato pochi giorni fa la deputata europea belga Petra De Sutter, nel chiedere di “riconoscere il diritto degli Stati membri del Consiglio d’Europa di disciplinare o vietare la maternità surrogata a livello nazionale come meglio credono”. La maternità surrogata è una realtà, ha aggiunto, “e tale resterà finché non si sarà inventato l’utero artificiale”. Auguri. Ci si mette davvero poco (almeno sul piano teorico) a passare da certi banchetti d’amore alle “camere di decantazione” immaginate da Aldous Huxley nel suo totalitario Mondo Nuovo, dove gli esseri umani non nascono più da una donna ma da uteri artificiali. Tutti, finalmente, figli di nessuno.

Uomini autentici e no

di Francesco Galofaro

La concomitanza tra l’approvazione della legge Cirinnà, che regola le convivenze civili, e la nascita del figlio di Nichi Vendola, ottenuta attraverso la maternità surrogata, ha scatenato una polemica violenta e volgare con tratti di fondamentalismo, che ha scompaginato le tradizionali antropologie di destra e di sinistra e ha visto l’inedita convergenza tra miti cattolici e rudi marxisti. Così Giorgio Cremaschi senza troppo argomentare giudica il così detto «utero in affitto» (come se si dovesse per forza trattare di un contratto di locazione) una «violenza di classe, perché sono le donne povere che per necessità vendono e le coppie ricche che comprano»; Laura Boldrini esprime riserve perché «si tratta di una pratica che si presta allo sfruttamento del corpo della donna»; contemporaneamente i nemici della «teoria gender» sostengono che con l’utero in affitto la libertà della donna si è spinta troppo oltre. Anche a destra desta scandalo che il mercato possa portare alla violazione di una «legge di natura». Così Sgarbi dichiara: «Quel bambino è una persona che si sono costruiti a tavolino, come un peluche»; secondo Sandra Savino (FI) «il “figlio” di Vendola è una vittima dell’egoismo di due persone che non possono avere bambini ma grazie a una carta di credito riescono a stravolgere la natura»; Beppe Grillo se la cava enunciando un assioma degno dei sistemi di logica modale: non tutto ciò che è possibile fare deve per questo accadere. Con sfumature, tutti i protagonisti della convergenza bipartisan contro la maternità surrogata si trovano d’accordo sulla reazione da adottare: occorre rendere l’utero in affitto un reato penale, e c’è perfino chi ha chiesto l’arresto di Vendola. Ma se effettivamente la donna che affitta il proprio utero fosse il soggetto debole, costretto ad agire così a causa di povertà ed indigenza, sarebbe etico criminalizzarla istituendo questo reato? E il proibizionismo risolve o aumenta le distanze tra le classi, creando territori di privilegio per nababbi abituati pagare per la realizzazione di ogni capriccio? E proibire questo genere di pratiche in Italia cancella forse i tanti far west dove esse vengono praticate in spregio ad ogni regolamentazione e ad ogni considerazione etica, o ne aumenta solo il fatturato?
Un appello alla pietà vorrebbe poi che ogni bimbo piccolo abbia diritto al tepore del corpo materno, al suo latte, e che i figli della maternità surrogata siano in qualche modo orfani coatti. Ma non esiste alcun diritto del bambino ad avere una madre, o i vedovi sarebbero obbligati a risposarsi. E non è sostenibile che chi è cresciuto col latte artificiale sia per questo un nevrotico o una persona infelice. Inoltre, non è vero che una cattiva madre sia meglio di nessuna madre: dobbiamo obbligare chi ha prestato il proprio ventre alla maternità surrogata a riprendere con sé un bambino che non ha mai avuto intenzione di crescere, speculando sull’inconscio e sull’istinto genitoriale? Non faremmo meglio a sbarazzarci di certa retorica mammista?
Un secondo luogo comune molto frequentato è la richiesta di favorire le adozioni – nel caso della sinistra, anche quelle gay. Eppure qualcosa non torna in questa opposizione tra maternità surrogata e adozione. Mi sembra possibile dimostrare che essa riposa sulle contraddizioni irrisolte della cultura occidentale, sui suoi grandi miti, sui suoi fantasmi.
Viviamo in un’epoca in cui è possibile estendere la proprietà privata a una forma di vita, ad esempio a un fermento lattico creato in laboratorio. Tuttavia, un genitore gay non può adottare il figlio del convivente. Vediamo quindi un’opposizione tra la proprietà privata, forma giuridica nuova e vincente sul piano storico, e l’adozione, il cui istituto precede il capitalismo ed è testimoniato fin dall’alba della nostra cultura. Si tratta di un conflitto tra due diversi regimi semiotici: quello contrattuale, per cui la società è costituita da una serie di relazioni economiche tra individui improntate all’interesse privato, e quello pre-contrattuale, che vede la società come la realizzazione di un ordinamento perfetto e naturale i cui interessi trascendono quelli dell’individuo. È un’opposizione che si trova anche nella filosofia del diritto di Hegel: il filosofo assegnava allo Stato il compito di risolvere questa dialettica. Non è strano dunque che la sinistra erediti questa impostazione culturale attraverso letture superficiali del marxismo. La maternità surrogata è così dipinta come frutto di un mercimonio reso possibile dai saperi più avanzati del capitalismo maturo, della genetica, della medicina, in opposizione all’adozione.
Ma è così vero che l’adozione vive una sorta di extraterritorialità rispetto al capitalismo, alle differenze di classe, allo sfruttamento? Se è vero in genere che il capitalismo sussume sotto di sé istituzioni nate in regimi economici precedenti, come il feudalesimo, così anche l’adozione risente della capacità del capitalismo di strutturare le relazioni sociali sul modello di quelle economiche. Innanzi tutto, chiediamoci da quale classe sociale provengono i bambini adottati. A quale ceto appartengono i 400 bambini abbandonati alla nascita ogni anno in Italia? Consideriamo poi che per poter adottare un bambino da un orfanotrofio italiano occorre subire un processo lungo e che costa cifre a quattro zeri. Per questo motivo si adotta all’estero. Basta dare una scorsa ai Paesi in cui si adotta, ed ecco che le differenze sociali tornano a galla: Congo, Burkina Faso, Brasile, Colombia … Sono i numeri di questo processo a essere ben più rilevanti rispetto al fenomeno dell’utero in affitto. L’Occidente ricco ha depredato per decenni il resto del mondo di quei figli che non è in grado di mantenere: figli di disperati, di casi sociali, bambini abbandonati o strappati via a madri che non possono permetterseli. Tuttavia, siamo portati a considerare la pratica dell’adozione altamente morale, tralasciando quegli aspetti di classe che nel caso della maternità surrogata ci impressionano tanto. Dunque non vi è vera contraddizione tra dispositivo contrattuale capitalista e adozione: abbiamo piuttosto una sorta di stratificazione geologica. Il capitalismo si caratterizza per la forza travolgente di imporre le proprie forme a ogni tipo di legame sociale, ristrutturandolo, che lo si consideri morale o meno. L’argomento della carta di credito, insomma, non è rilevante: esso dovrebbe portarci a condannare anche l’adozione. Del resto, quasi tutto in regime capitalista ha un prezzo e non si fanno sconti al proletariato. Anche la fecondazione assistita, dati i suoi costi, rischia di essere discriminante in assenza di uno stato sociale degno di questo nome.
Ne è passato di tempo, da quando Carlo Marx invitava ad attaccare la morale borghese e a denunciare gli interessi che ipocritamente essa copre. Perfino gli irriducibili simpatizzanti del trotzkismo sembrano aver introiettato il modello della famiglia eterosessuale. Quale sostanza si nasconde davvero sotto la verniciatina di marxismo che ritroviamo in alcuni argomenti contro la maternità surrogata? In cosa adottare un bambino strappandolo alla famiglia, alla classe e alla cultura di origine sarebbe più morale di un accordo, regolamentato dalla legge in modo che si eviti il far west, che consenta a una coppia gay di divenire genitori attraverso la maternità surrogata? Alcuni sostengono che il bambino appositamente «fabbricato» vada a occupare una casella vuota che altrimenti sarebbe destinata a un bambino più sfortunato. Si tratta di un argomento molto pericoloso, che implica un’opposizione tra bambini «costruiti in laboratorio» e bambini autentici, e che di per sé dovrebbe portare al rifiuto non solo della maternità surrogata, ma anche del concepimento in provetta e di ogni forma di fecondazione artificiale, sia omologa sia eterologa. Essa chiama in causa uno dei grandi miti negativi del Novecento, quello della tecnica, della sua onnipervasività amorale, che trascina il cambiamento culturale al di là di ogni ragionevole controllo politico da parte dei soggetti coinvolti. Come tutti i miti, è intimamente contraddittorio e forma la soggettività di tutte le parti in causa. Il mito del patrimonio genetico agisce infatti su coloro che ricercano un figlio «più autentico» perché la naturalità di tale legame sarebbe in qualche modo certificata dalla biologia. Gli aspetti pratici, tecnici, legati al sapere e alla cultura che rendono possibile la costruzione di questo legame passano in secondo piano. D’altro canto, coloro che associano un valore negativo alla tecnica giudicheranno più autentico il figlio adottato, sempre che non considerino contro natura l’idea stessa delle adozioni gay; il fatto che l’istituto dell’adozione sia perfettamente culturale passerà allora sullo sfondo. A ogni modo, ciò che è veramente inumano in questo metro di giudizio è che esso suppone una distinzione biopolitica tra esseri umani autentici ed inautentici. Chi la pensa così è invitato a spiegare a un bambino nato dalla maternità surrogata (o dalla fecondazione assistita) che sarebbe stato meglio per lui non essere nato. Se apparteniamo ancora all’umanità, questa è la sola idea che dovrebbe ancora ripugnare alle nostre coscienze.

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