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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

In una parola / Daesh

18 Novembre 2015
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 17 novembre 2015 –

images-3Is, Isis, Califfato, Terrorismo islamico, Daesh. Non sappiamo ancora come chiamarli questi nemici che hanno colpito di nuovo Parigi (dopo altre orrende stragi in varie parti del mondo). Abbiamo letto che il nome che si va affermando a livello ufficiale – Daesh – non è altro che una traduzione dello stesso acronimo arabo da cui derivano Is e Isis (Stato islamico in Iraq e nella Siria, o anche del Levante). Viene preferito perché pronunciando all’occidentale le iniziali arabe dell’acronimo non si allude all’Islam ( nessun credito all’autoaffermazione del “Califfo” di rappresentare l’intero Islam). Inoltre Daesh in arabo suonerebbe simile a un termine dispregiativo che significa “colui che semina discordia”.
E’ stata anche ricordata sui media l’antica massima strategica cinese: conosci bene te stesso, conosci bene il tuo nemico e sarai invincibile. Purtroppo le incertezze sin dal nome ci dicono che abbiamo ancora molto da capire sulla vera natura del fenomeno Daesh. E la tanta retorica sull’Occidente aggredito perché alfiere della libertà e dei lumi parla di una troppo povera autocoscienza nostrana.
Bisognerebbe recuperare, ma non è facile farsi un’opinione, al di là della certezza rappresentata dall’orrore, dal dolore, dalla paura, dal rifiuto categorico di una violenza così atroce.
Sembrano ragionevoli le analisi – come quella avanzata dalla rivista Limes, o nei commenti di Alberto Negri sul Sole 24 ore – che insistono sul fatto che la guerra è in corso non tanto contro l’Occidente, quanto tra le diverse confessioni dell’Islam, con l’intreccio di interessi statali e non, nella vasta area in cui opera il Daesh.
Ma l’Occidente purtroppo ha una lunga storia da protagonista in questa vicenda conflittuale interna al mondo islamico. Bisognerebbe ripercorrerla dalla prima guerra mondiale sino agli interventi in Iraq e in Libia, e al gioco – spesso occulto – degli interessi occidentali e non solo (basti pensare alla Russia e alla Cina) presenti in tutto il continente africano e in Asia.
Sono molto sensibile al richiamo dei valori di libertà che fanno parte dell’Occidente. Tuttavia credo che non possiamo pronunciare queste parole senza ricordare che sono ancora vive molte delle persone che hanno subito la barbarie dei totalitarismi nati in Occidente. E che il più grande progetto figlio di quei valori, l’Europa Unita, vive una crisi profondissima ed è forse sull’orlo del fallimento.
Del resto siamo noi, noi occidentali, capitalisti, e cristiani, i grandi vincitori nella conquista del mondo. Ho ascoltato recentemente da Aldo Tortorella un’interpretazione delle parole e dei gesti di papa Francesco come una forma di autocritica proposta all’intero Occidente vincitore. Il mondo come lo abbiamo costruito, non va molto bene. Questo non giustifica la violenza da parte di nessuno, né da parte dei fondamentalisti islamici. Ma la conoscenza di chi siamo veramente noi ci aiuta a capire, credo, il perché dell’odio che ci viene rovesciato addosso.
Venerdì scorso, mentre a Parigi i terroristi cominciavano a uccidere, partecipavo con Letizia Paolozzi a Brescia a un incontro sul suo libro “Prenditi cura”. Una donna – Rosanna – si diceva convinta che questa parola, cura, può essere oggi imbracciata come una leva politica per “scardinare, ribaltare la società e l’economia attuali, profondamente ingiuste”. Sapendo vedere anche il positivo che si manifesta.
Ci ho ripensato leggendo del gesto di Marek Halter, ebreo, che ha portato i suoi amici imam a testimoniare insieme solidarietà al Bataclan, sfidando le ingiurie degli estremisti (occidentali) lepenisti.

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