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Maschi in minigonna, da Istanbul a Suzzara

18 Marzo 2015
di Letizia Paolozzi

image“La violenza non può essere colpa della gonna”. Vero. Così vero che in Turchia, accanto alle donne, per protestare contro lo stupro e la morte della ventenne Ozgecan Aslan, rapita e uccisa a Mersin, nell’Anatolia meridionale, dal conducente di un minibus, hanno sfilato anche uomini in minigonna. E rincarando la dose, su Facebook: se una donna che indossa una minigonna è un invito alla violenza, allora stuprate anche noi.
Sembrerà parecchio strano ma la campagna, secondo la Bbc, sarebbe iniziata in Azerbaigian. In uno dei paesi dove cresce la persecuzione con false accuse, pestaggi, minacce e il diniego di assistenza legale nei confronti di chi critica il governo di Baku.
Comunque sia, a Istanbul, c’erano anche uomini a manifestare.
Ora, una manifestazione può essere una pura ripetizione. Così lascia il tempo che trova. Oppure, è un pugno nell’occhio che rimette in gioco vecchi pregiudizi e rompe modelli consolidati valicando un confine che sembrava inamovibile.
Messaggio inaspettato. E’ accaduto a Oslo, dove musulmani e cristiani hanno formato una catena umana di solidarietà attorno alla sinagoga per proteggere altri esseri umani dalla “ferocia ostentata” dell’Isis.
Accade per gli uomini in minigonna.
Naturalmente, questo gesto ha delle sfumature differenti a seconda della latitudine. In Turchia, immagino ci sia voluto immenso coraggio per sfidare quel patriarcato che incombe sul costume, le tradizioni, mentre il governo di Erdogan poco si spende in difesa del sesso femminile. Anzi, il vice-primo ministro, Bülent Arinç (del partito al governo AKP, conservatore) qualche mese fa si è chiesto: “Dove sono finite le nostre ragazze che arrossiscono, abbassano la testa e volgono lo sguardo lontano, quando guardiamo il loro viso, diventando un simbolo di castità? (…) La castità è molto importante. Non è solo una parola, si tratta di un ornamento [per le donne]. Una donna dovrebbe essere casta. Dovrebbe conoscere la differenza tra pubblico e privato. E non dovrebbe ridere in pubblico”.
Risultato: migliaia di ragazze, non solo turche, hanno pubblicato su Twitter foto che le ritraevano ridenti, con l’hashtag #direnkahkaha (#resistereridere) e #direnkadin (#resisteredonna).
Forse, indossare la gonna (magari prestata da mammà) a Nantes, dove il provveditorato appoggiava l’iniziativa, sarà stato più semplice. Ma più confuso. Dal momento che “la giornata contro il sessismo”, alla quale l’indumento femminile indossato dai maschi era dedicata, è scivolata nell’ennesima polemica con i militanti anti-matrimonio gay della Manif pour tous.
Ecco un nuovo complotto del Ministero dell’Istruzione (che ha negato di essere al corrente dell’iniziativa) per negare la differenza sessuale e spingere gli studenti nelle braccia dell’omosessualità. Di recente, si è unita anche Suzzara con un sit-in nel cortile dell’istituto Manzoni e lo slogan: “ Chi picchia una donna non è un uomo”.
Sarebbe interessante sapere, al di là del segnale di indignazione e di quello imitativo, suscitato dalla messa in circolo sui social, quali pensieri suscita in ognuno di questi ragazzi. Devono farsi forza uno con l’altro nel timore di perdere la virilità? Hanno paura di femminilizzarsi, di rinunciare alla supremazia maschile, di sentirsi “contaminati” dall’identità omosessuale oppure stanno inventando nuovi rapporti tra individui di sesso maschile? Si liberano (per un momento) dalle strutture autoritarie che opprimono il corpo negando, grazie a un pezzo di stoffa, i rapporti di sesso gerarchizzati e sbilenchi. Insomma, intravvedono un modo di intendere la virilità e di viverla, senza violenza?

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