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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Narrative di guerra/ Alice e lo specchio

7 Febbraio 2015

di Monica Luongo

Provo una sincera ammirazione per tutte/i coloro hanno scritto e scrivono commenti dopo la strage di Parigi: quasi tutti hanno le idee chiare, sanno cosa sta succedendo intorno a loro, hanno capito chi sono i buoni, chi i cattivi, e anche dove sono le donne e che ruolo hanno; siano esse vittime o terroriste, politiche o attiviste. Certo è che almeno in Italia un merito l’hanno avuto: hanno spazzato via veline, starlette e vallette dal fuoco delle telecamere e delle prime pagine, anche se sostituite con signore in burqa.

Io invece sono ancora confusa, anche e proprio perché da due anni vivo in un paese islamico e fatico davvero a farmi una idea. Ho impiegato più di un mese per rimettermi a scrivere di Islam e Occidente, non solo a causa della confusione ma anche perché in momenti difficili e drammatici cerco un appiglio, una solida mano intellettuale che mi tiri fuori dall’acqua che inzuppa il cervello.

Questo nostro mondo gira così veloce, con funzioni centrifughe e centripete, che trovare un unico baricentro che giustifichi il cambiamento e consenta di posizionarsi con un approccio tolemaico è impossibile.

Così mi sento come Alice nello specchio: quello che vedo non riflette obbediente la mia immagine e quella del mio mondo così come è stato finora, ma dietro quella parete ci sono più realtà in cui Alice può solo muoversi, osservare curiosa e, quando serve, anche scappare. E non vi è dubbio che il potere della rappresentazione e le sue modalità rendano ancora più nebuloso il transito di Alice da oltre lo specchio alla sua stanza.

Per non essere banale, mi accorgo che sono ancora nel campo dell’ovvio, medito da un po’ di tempo intorno al bellissimo volume di Ombrecorte (“Il sapere”), che ha pubblicato il primo tomo delle lezioni che Gilles Deleuze dedicò al pensiero e agli scritti di Michel Foucault. Spiega il primo ai suoi studenti che il perno del pensiero del filosofo si basa sulla dicotomia “forma dell’espressione” e “forma del contenuto”, ovvero il significante e il significato che diamo a parole e concetti. Scrive Deleuze: “In Foucault la forma dell’espressione non ha più niente a che vedere con il significante, la forma del contenuto non c’entra più col significato (…) Foucault non si stancherà mai di ribadire che le discorsività si annullano nel caso vengano sottoposte all’ordine del significante (…) Siamo nel pieno del problema della verità per come la pone Foucalt, in quanto la verità è sempre stata definita dalla conformità tra il dire e il vedere”.

Cosa di più attuale: il dire e il vedere. Ed ecco che le cose accadono così in fretta che occorrerebbe una camera GO PRO nel cervello perché la fotografia non è altrettanto veloce, soprattutto quando si osserva il mondo stando davanti a più di una finestra aperta, come ha scritto ieri il bravo columnist britannico Chris Cork, da oltre vent’anni in Pakistan (http://tribune.com.pk/story/832890/snap-happy/) e quello che so fare oggi è registrare. Il nostro mondo messo sottosopra (o almeno così pare) da quello islamico è di così facile lettura? E le contrapposizioni insite in seno all’uno o l’altro sono solo dicotomiche? E se c’è – come sempre è – una visione di genere dei mondi, come viene declinata?

La forma del significato.

Tempo fa Alessandra Bocchetti ha scritto della manifestazione di Parigi: lacrime e commozione, ma anche stupore perché non aveva scorto donne velata nella moltitudine. Poi qualche amica ha suggerito che sì, qualche velo c’era oibò. Il suo pezzo suggeriva come sempre acutamente: dove sono le donne musulmane, perché non protestano? E ancora: il titolo del pezzo è “Cosa siamo disposte a fare per non tornare sottomesse?” (http://www.senonoraquando-torino.it/2015/01/24/cosa-siamo-disposte-a-fare-per-non-tornare-sottomesse-di-alessandra-bocchetti/). In quel racconto del racconto e nelle sue non superficiali domande, Bocchetti si rifà a Brecht indirettamente e cita la progressiva perdita di diritti degli ebrei prima del genocidio, passata come una progressiva serie di restrizioni scivolata dalla “normalità” all’orrore (lo raccontava bene in un bellissimo volume Claudia Koontz, Donne del Terzo Reich, Giunti 1996), si chiede se dobbiamo giustificare quelle che imbracciano i fucili in nome della libertà, e molto altro. Nel leggerlo, e così i commenti a esso, mi è venuto in mente ciò che mi ha tormentato dopo i fatti di Parigi: intanto, che le donne musulmane non stanno tutte chiuse a casa, per fortuna. Che oltre la metà di quelle che vivono in Europa non portano il velo; e forse stupirà sapere che anche qui, in Pakistan nelle grandi città le donne non portano il velo. La burqa è altro dal velo, possiamo per favore smettere di tornare su questa questione, davvero inutile a ogni riflessione. E forse magari le donne musulmane alla manifestazione di Parigi non ci sono andate perché avevano paura di qualche reazione violenta? E con quale cuore avranno mandato i loro bambini a scuola, già cittadini di serie b ovunque in Europa, sin da quando nascono?. Ecco cosa mi preoccupa. La violenza religiosa in questo momento non ha niente a che fare con il razzismo.

Marina Terragni intervista Marisa Guarneri della Casa delle donne maltrattate di Torino (http://blog.iodonna.it/marina-terragni/2015/01/29/marisa-guarneri-casa-delle-donne-maltrattate-violenza-domestica-e-la-violenza-jihadista-sono-la-stessa-cosa/), e la violenza terrorista viene equiparata a quella domestica. Per fortuna risponde Luisa Muraro sul sito della Libreria delle Donne di Milano e quindi io mi astengo, perché aderisco totalmente (http://www.libreriadelledonne.it/violenza-domestica-e-violenza-fanatica-non-sono-la-stessa-cosa/). Dall’altro lato dello specchio, ovvero in terra islamica, le dichiarazioni anti-Charlie si sono sprecate: manifestazioni (di pochi in verità) in tutto il Pakistan e Afghanistan, ma anche voci critiche e illuminate (certo, sui giornali, quanti li leggono qui?). Noto con gioia che anche qui i vignettisti ci sono, e stanno facendo del loro meglio per esprimere dissenso interno ai loro paesi e all’esterno. E anche i miei amici più illuminati a Dubai mi chiedono perché l’Europa non fa qualcosa per limitare i danni di chi offende la religione. Confesso che sul tema mi rifiuto garbatamente di rispondere, è davvero troppo complicato spiegare cosa è successo dalla Rivoluzione francese a oggi. Ma non c’è dubbio, e in questo concordo con Bocchetti, che il corpo delle donne è uno dei fulcri su cui si gioca questa rischiosissima scommessa, che è la coesistenza dei mondi nel domani.

Il Pontefice. Grande rivoluzionario della comunicazione (io devo dire fino a ora sua attenta ossrvatrice, quantomeno curiosa), mentre eravamo tutti li a dire “JesuisCharlie”, anche se non ci piacevano le vignette e così via, di ritorno dalle Filippine annuncia alla stampa di tutto il mondo che libertà di espressione va bene sì ma con moderazione usando la famosa metafora della mamma e del pugno a chi la offende. Ovvero chi stabilisce il limite alla moderazione? Bella questione, da dove iniziamo: dall’alcol, dalle droghe o dalla limitazione alle nascite, altro tema dibattuto nelle prolifiche Filippine? Ma si tratta del pontefice e la cautela e il rispetto sono d’obbligo. Nel dare forma al suo contenuto, ovvero nell’esprimersi, Papa Francesco parlava non solo con i fedeli ma anche agli imam, agli ulema, agli interlocutori del mondo islamico, insomma. Bene, ma pur sempre di pugni si tratta.

Rapiti e rapitori. La narrativa di guerra da tempo si è colorata orrendamente. Oltre a usare i social media con professionale abilità, Al Qaida, l’Isis e altri gruppi procedono in una cruenta real tv policy, filmando e firmando le loro esecuzioni, trattando con i governi il rilascio degli ostaggi e le somme di denaro richieste in maniera plateale. Per le donne di Boko Haram in Nigeria invece non si capisce bene chi tratta e per cosa: situazioni e paesi profondamente differenti: qui le donne sono mostrate in gruppo schiave e spose. E ancora, la politica di Shinzo Abe che nega ogni trattativa e perde i suoi connazionali rapiti, le giovani italiane rapite in Siria e rilasciate grazie a una abile azione diplomatica e di intelligence, che ha scatenato polemiche e cavato fuori da alcuni i peggiori istinti razzisti ed egoisti (Greta e Vanessa hanno commesso i loro errori da principianti e del loro rapimento è responsabile chi le inviate in zone belliche senza nessuna seria preparazione, ma accusarle di portare armi o di avere relazioni con siriani senza prove è quasi disgustoso). I reporter detenuti in Egitto, costretti a fare il loro lavoro sotto le direttive dei terroristi che li obbligano a fare reportage sul modello di National Geographic.

La forma del contenuto.

Ieri è stata resa pubblica e tradotta anche in italiano la lettera di quattro docenti francesi, che esprimono chiaramente il loro dolore per la voluta trascuratezza in cui le e i giovani delle banlieux francesi sono stati tenuti e cresciuti, così difficili da comprendere perché – scrivono – non vestono come noi, desiderano oggetti di consumo che si trovano sempre nelle nostre case, perché noi abbiamo cibo e buon vino e parliamo di libri e andiamo in vacanza. Noi siamo Charlie, concludono, ma siamo anche le madri ignorate da uno stato che vuole vantare i suoi primati e che ha fallito (http://www.odysseo.it/a-propos-de-charlie-hebdo/ ).

E, dalla Francia e con la stessa voce di un’altra donna che di islamismo e politica se ne intende, Emma Bonino, Elisabeth Badinter rilascia una intervista in cui piange un altro importante morto lasciato a terra, però, ignorato e non protetto a sufficienza, la laicità. La sinistra ha fallito nella sua missione – dice la femminista francese – mentre si preoccupava di proteggere la diversità degli altri (http://www.marianne.net/elisabeth-badinter-je-ne-pardonne-pas-gauche-avoir-abandonne-laicite-020215.html ) non difendeva il pilastro del suo essere stato, ovvero la laicità. Il secolarismo, di cui tanto ci vantiamo in occidente, scricchiola sotto il peso del Cogito ergo sum trasformato in Credo ergo sum.

Piangono le donne pakistane che hanno perso i loro figli a dicembre nell’attentato alla scuola di Peshawar, piangono le famiglie dei 52 periti in una mosche sciita due giorni fa a cento chilometri da Karachi: noi le cellule dormienti, loro la guerra civile. Sono soddisfatte e con ragione le donne di Kobane, motore della lunga lotta che ha portato la città a sopraffare l’Isis. Con dolore e rabbia tutte le donne stuprate dagli integralisti chiedono di poter abortire, proprio come accade nel primo conflitto nei Balcani, tra le cui vittime c’erano anche le suore cristiane.

E’ di ieri, al contempo, il manifesto delle donne integraliste della al-Khanssaa Brigade di Siria e Iraq pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian (http://www.theguardian.com/world/2015/feb/05/jihadist-girl-marry-liberation-failed-islamic-state?CMP=share_btn_fb ): un memorandum di quanto prescritto dal codice della Sharia (che pure si presta a molte interpretazioni da parte degli stessi musulmani): le donne posso sposarsi dall’età di 12 anni, è meglio che stiano a casa invece che a scuola, perché la scuola oramai nel mondo riflette il modello fallimentare delle donne occidentali, gli unici studi sono quelli religiosi. Non posso saperlo con certezza, ma non credo che le donne siano state indotte a farlo (altre, più colte di loro, hanno lasciato gli studi all’estero per andare a combattere): ne incontro moltissime in Pakistan – insieme alle molte attiviste dei diritti civili e della donna – che hanno una fede cieca, che sono indottrinate e ostinate, che rifiutano le amicizie femminile se non all’interno dei loro clan di appartenenza. Non c’è dubbio che la mancanza di istruzione fa da padrona e che se le madrasse sono piene non è a causa del fanatismo di tutti i genitori, ma perché sono gratuite al contrario della istruzione pubblica, inavvicinabile per i più poveri. La responsabilità anche qui è di governi che ricevono milioni di dollari in aiuti umanitari ma che si stanno accorgendo solo ora della guerra in casa. Oppure, come in Siria o Yemen, hanno tutto l’interesse a mantenere lo statu quo.

Alice non ce la fa capire tutto quello che dicono il Gianconiglio, il Cappellaio matto e i gemelli Humpty e Dumpty, può solo correre dietro di loro: è costretta solo ad arrestarsi di fronte alla regina di cuori quando la sua vita è in pericolo (Mozzatele il capo! urla alle sue guardie e mai metafora fu più appropriata). Quando ritorna in superficie non è più la stessa.

Anche noi tutte e tutti non siamo più gli stessi: stiamo cambiando e dobbiamo ancora capire come sarà il nostro mondo domani. Possiamo nel frattempo guardare, osservare, parlare e riflettere tenendo presente, come dice Chris Cork, che le finestre aperte possono essere più di una.

pubblicato anche su www.olimpiabineschi.it

 

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