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Narrative di guerra/American sniper

6 Gennaio 2015

pubblicato su www.olimpiabineschi.it

Una amica che come me ha lavorato in aree di guerra mi diceva qualche giorno fa – di fronte alle reciproche impressioni delle nostre vite di quotidiana “normalità”, in paesi in cui pochi vorrebbero mettere piede – che l’esperienza è un po’ come essere lungo degenti in ospedale, dopo i primi giorni ci si abitua a un ritmo quotidiano fatto di procedure che hanno senso solo li dentro e che in pochissimo tempo appaiono normali, perché è il nostro cervello che si adegua rapidamente alle soluzioni difficili, estreme, e ne cerca accomodamenti utili alla sopravvivenza.

Ho visto anche io “American Sniper” di Clint Eastwood, e prima ancora ne ho letto numerose recensioni positive e non: antieroismo, troppo americanismo, retorica, e così via. Non mi sono stupita, il vecchio Clint è americano fino al midollo, mi piace però che l’amor di patria sia continuamente messo in discussione nei suoi film da dieci anni a questa parte. Vedere le scene del cecchino Kyle che – come gli ha insegnato suo padre – protegge il gregge americano da Fallujah (Iraq) è come vedere l’America di oggi che si interroga su quanto accaduto e fatto dall’11 settembre a oggi.

Ho visto per la prima volta i soldati americani a Kabul, l’estate scorsa. Ho vissuto e lavorato in due compound – uno era quello delle Nazioni Unite – quindi a stretto contatto con uomini e mezzi. Mi ha colpito nei primi giorni, oltre allo spiegamento di mezzi blindati e sacchi di sabbia, garitte e fucili a pompa, la giovane età dei ragazzi con cui a volte dividevamo lo spazio comune del pranzo: nessuno mi sembrava avere più di 25 anni e io mi trovavo continuamente a pensare ai loro familiari e all’ansia per la loro lontananza, soprattutto perché non ci sono immagini a disposizioni. Kabul o Herat o Fallujah non sono New York e Parigi, sono luoghi in cui i civili entrano con il contagocce, dove molto è distrutto eppure quando non c’è il coprifuoco chi può va in strada, a mangiare, al mercato a vedere i tappeti.

Da lì leggevo le mail del mio vecchio zio che vive in America da oltre 50 anni: stiamo seguendo con molta attenzione il riconteggio delle schede dei due candidati alla presidenza, diceva (io ero tra quelli che ricontavano nel team UNDP). In Italia i miei amici neppure sapevano cosa stavo facendo lì, dicevano solo per favore torna a casa.

In “American sniper” si rivive la stessa sensazione: una “idea” di America che deve combattere un nemico, una minaccia che ha milioni di facce, decine di città, che a volte dà l’impressione di non capire troppo bene perché lo fa (per loro stessi, per noi, per la cristianità?); dall’altra una idea di Islam fatto di città distrutte, di bambini che portano bombe, di atletici cecchini che a loro volta hanno messo una taglia sul migliore tirare scelto che gli USA abbiano mai avuto; di sabbia e polvere, e ovviamente di nemici.

Dentro questo scenario c’è la “normalità” dell’essere soldati, o di lavorare in aree belliche, dove non fai più caso ai check point, al caldo infernale, alla preghiera che scandisce le ore della tua giornata dalle moschee. Quella giornata diventa la routine: alzarsi, vestirsi, mangiare, sparare, essere in costante e stretta relazione con chi lavora assieme a te.

E’ quando torni a casa, quando esci da quello strano ospedale, che i conti non tornano: gli altri non ti capiscono perché c’è qualcosa che non puoi raccontare, la leggenda eroica del soldato salvifico non è il tuo abito: tu rimani lì, le orecchie pronte al minimo sibilo, il sobbalzo violento di fronte all’attacco di un cane, l’impossibilità di raccontare, soprattutto a chi ti ama. Il vero film che Clint racconta è proprio questo: che tornare a casa, oppure portare a casa anche il cervello con il proprio corpo, a volte è maledettamente difficile.

Monica Luongo

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