Incontro Nichi Vendola nei giorni difficili della divisione nel gruppo parlamentare di Sel, con la scelta di Gennaro Migliore e di altri e altre di abbandonare quella “terra di mezzo” indicato come il luogo politico per una ricerca senza settarismi. Uno spazio tra la costruzione di una nuova sinistra, sociale, radicale, critica, e il rapporto non chiuso con quel che resta del socialismo europeo, da Schulz al Pd di Renzi. Vendola accetta di ragionare sul rapporto tra sinistra e femminismo, un tema che gli sta a cuore. E lo fa con una vena di malinconia per le occasioni mancate. Sembra un discorso distante dalla quotidianità della politica. Ma è qui – nel “corpo a corpo” tra uomini e donne sul terreno del potere e delle sue rappresentazioni simboliche – che anche per lui sta la radice più profonda di un vero cambiamento. Forse anche la ragione delle stesse relazioni politiche maschili che falliscono.
Un discorso da riaprire?
Sì. Bisogna riaccendere una luce sulla scena che vede le culture politiche delle nostre vite incrociare il femminismo, i femminismi, il movimento delle donne. Per me un punto di svolta è stato film di Margarete Von Trotta “Lucida follia”: quel crudo realismo della uccisione del maschio femminista e progressista era una drammatica metafora. Era il bisogno di uno spazio totalmente impregiudicato, privo persino delle buone intenzioni maschili, di codici comunque frutto della capacità mimetica del nostro genere per governare sempre tutti i mondi, anche quelli che si mettono di traverso all’onnipotenza maschile. Quei colpi di arma da fuoco per me sono stati sempre un punto di riflessione importante. Paradossalmente hanno restituito al genere maschile una condizione di solitudine…
Una solitudine capace di produrre un più vero senso di sé?
Solitudine che può essere nevrosi, ma può essere anche libertà. Nevrosi se i maschi non si guardano allo specchio e non si raccontano, e tendono semplicemente a contrastare come possono, per quel che possono, la crescita degli spazi del femminile, nella vita pubblica e in quella privata. Se invece fossimo capaci di imparare dalle donne a costruire una genealogia del nostro genere, una archeologia degli stereotipi, dei codici culturali, forse potremmo scoprire che l’onnipotenza è un mestiere stressante. Che scendere dall’Olimpo può significare incrociare tante cose belle, incontrare l’umanità fuori da qualunque verticalizzazione, gerarchizzazione, dinamica di potere.
Quando incontri il femminismo?
Con gli slogan degli anni ’70. “Il corpo è mio e lo gestisco io”: erano parole e gesti nelle piazze, ma anche “manuali” per lo più importati dal Nord America. E libri come “Una voce” di Franca Basaglia, che per me è stato molto importante. La fabbrica della follia afferrava la questione dell’identità. Antipsichiatria e riflessione femminista furono determinanti per la mia formazione. E poi le battaglie pacifiste con Lidia Menapace, le tante discussioni tra l’Unità e il manifesto, la stagione nel Pci della Carta delle donne. Ho l’età sufficiente per aver conosciuto Nilde Jotti, Adriana Seroni: la gestione del paradigma dell’emancipazione e le doglie da cui nacque quello della liberazione nel territorio dei femminismi.
Il Pci aveva cercato di intercettare e rappresentare la “forza delle donne”. Oggi come declineresti questa intenzione politica, dove orienteresti lo sguardo?
Ci sono due questioni attuali che possiamo anche usare per una ricognizione retrospettiva. La questione della violenza sessuale, e la questione del potere.
La violenza contro le donne è diventato un grande tema mediatico e politico. Con quale significato?
Non voglio dare giudizi trancianti ma vedo il rischio, paradossale, che proprio su questo tema quasi si sterilizzi il senso del femminismo, coniugandolo a quella tendenza malata della nostra modernità che è il panpenalismo. Una continua rimozione del carattere ordinamentale della violenza contro le donne: lo stupro non come eccezione, ma come regola, per lo meno nell’immaginario, nella grammatica e nella sintassi della cultura della sessualità. Vedo due fasi alterne: una lunga rimozione, e poi una improvvisa e sensazionalistica epifania. E ora l’unità nazionale intorno all’identikit del mostro. Mai una interrogazione sul nostro. Sullo stupro come punto estremo della normalità, della sessualità in cui viviamo, della sua miseria ontologica.
La violenza maschile come eccezione da cancellare solo con la repressione penale.
Dai dibattiti degli anni ’80 fino al sodalizio tra Livia Turco e Alessandra Mussolini, fino alle ultime vicende, la recrudescenza della pena è stato il modo per sanare la ferita simbolica, ma di sovrapenalizzazione in sovrapenalizzazione si è arrivati ora al femminicidio. Serve un nuovo vocabolario per cogliere la dimensione molecolare della violenza alle donne. La pancia istituzionale, normativa, disciplinare, repressiva, ha continuamente inghiottito e metabolizzato il senso ultimo, la radicalità di quelle domande di libertà.
C’è una discussione anche tra donne, tra femministe, sul senso e l’opportunità dell’uso del termine femminicidio. Il tuo è un rilievo critico?
Non respingo il termine, dico che il fenomeno ha avuto la necessità di una parola forte, di grande impatto mediatico. Ma in questa parola leggo anche un giudizio su vent’anni di recrudescenza del penale che sono stati una rimozione. Le pene, per così dire, hanno girato intorno al pene… impedendo la radiografia di tutto quello che parla della capacità predatoria degli uomini a partire da quel calco: la spada, la pistola… basta andare in qualunque biblioteca: lunghi scaffali di riflessioni a partire da sé di donne, di femministe, e un clamoroso vuoto di autocoscienza maschile. E’ anche il disvelamento di una capacità che le donne hanno sempre avuto di ritagliarsi spazi di libertà, finestre sulla loro alterità.
Ho citato spesso la vicenda dell’alfabeto Nushu. Furono scoperte in Cina centinaia di carte con un alfabeto misterioso, poi una donna ultracentenaria fornì il codice per decifrarle. Così si scoprì che in una società poligamica, in cui le donne sembravano solo occupate nel tinello domestico, ridotte al mugolio del piacere nel talamo, al brusio sullo sfondo, in realtà sfuggivano a queste rappresentazioni maschili, scrivevano lettere, romanzi, poesie d’amore, scambiandosi desideri, storie sentimenti. Un deposito di bellezza che parla non solo della mutilazione inferta alle donne. Ma anche della perdita per gli uomini del bene della differenza femminile.
Andiamo all’altra questione che hai nominato: il potere
Un ultimo punto sulla violenza sessuale: vorrei che tra noi, e nel dibattito pubblico, ormai globale, cominciasse una discussione su questo argomento che non avesse attinenza con il codice penale, con le norme, ma sui nessi che chiedono una interrogazione sulla famiglia, sulle relazioni tra i generi e tra le generazioni. Anche la pedofilia ha a che fare con l’esercizio dell’onnipotenza sul mondo. E un altro passaggio che mi porta alla questione del potere: per la mia cultura politica è interessante la provocazione della critica dell’antropotrencismo che viene dagli animalisti, da coloro che ragionano sui diritti del vivente non umano, per usare l’espressione di Ingrao. Perché credo che il senso del limite non debba essere una retorica ma una ricerca, e una ricerca aperta, soprattutto per noi che veniamo da “pensieri forti”. Lo dico per me, che sono cattolico e comunista, due antropocentrismi in una persona sola.
Il potere: qui la negazione del genere femminile può produrre due approcci differenti. Lo dico vivendo io stesso la contraddizione, avendo anche un approccio pragmatico. Sono stato il primo amministratore, in un governo regionale importante, ad aver formato una giunta fondata sulla assoluta parità di genere, e che ha presentato questa giunta parlando della vergogna di un consiglio regionale di 67 maschi e tre donne, come quello pugliese. Con quella scelta mi imponevo, dovendo gestire politiche pubbliche, una riorganizzazione dell’ascolto della domanda sociale con orecchie maschili e femminili, perchè l’ascolto cambia la storia dell’offerta delle politiche pubbliche. E devo confessare, con 10 anni di governo sulle spalle, che la competenza delle donne nella vita pubblica fa una differenza, porta qualità. Proprio perché consente un’altra modalità di ascolto, mette in gioco altri saperi. Cose sorprendenti nel rito autoreferenziale del dominio maschile della politica, che tende ad avere un rapporto sempre molto mediato con la vita quotidiana. Ho nominato il mio approccio pragmatico, ma credo che la cooptazione delle donne nei luoghi del potere non risolva la contraddizione, il problema di fondo: la asimmetria tra maschile e femminile tende a diventare gerarchia, diseguaglianza, colpa, e questo accade perché c’è qualcuno che corre a occupare lo spazio simbolico profondo del potere. Mi sono sempre molto interrogato su questa millenaria sapienza del maschile: penso ai simboli della differenza, come il mestruo, che ha a che fare con la fertilità e la fecondità, ed è stato trasformato in un simbolo minaccioso, umori di vita che diventano umori di morte. Sono nato in un mondo in cui le donne non potevano annaffiare i fiori o fare la salsa con i pomodori… E mi ha sempre colpito che nell’epoca in cui fiorisce la civiltà borghese ottocentesca in Italia, e in Europa, quando le donne assumevano nuovi ruoli nella scuola, nella letteratura, nell’arte, la rappresentazione del femminile nel nostro melodramma le inchiodasse a un destino fatalmente tragico – il suicidio, la tubercolosi, comunque la morte – in tutte le storie in cui facevano qualche passo fuori dal seminato, oltre i ruoli tradizionali. Insomma, una costruzione così lunga ha vestito i corpi, abitato i luoghi, connotato i vocabolari, penetrato l’immaginario, per fare della differenza femminile una minorità.
Vuoi dire che la sinistra, anche oggi, tutt’al più si arrende all’esigenza di un certo riequilibrio nei luoghi del potere politico, ma continua a rimuovere la radice simbolica della asimmetria e della differenza dei sessi?
La sinistra italiana ha intuito qualcosa, ha sentito quasi con strumenti emozionali che lì c’è un nodo. Berlinguer cerca di aprire una porta, è un rapporto vivo secondo me, conflittuale ma vivo, quello che si afferma negli ultimi suoi anni. Naturalmente con la tentazione della sinistra di scegliersi un femminismo a propria immagine e somiglianza. Come se il tema fosse l’approccio giusto a un soggetto altro, e non il lasciarsi attraversare da una contraddizione. In Rifondazione comunista ci sono stati molti varchi, anche attraverso mediazioni culturali di altro tipo. Ne voglio citare una che oggi è ingiustamente coperta dall’oblio: il garantismo di Ersilia Salvato. Siamo arrivati a un punto importante dentro la vicenda di Rifondazione al congresso di Venezia, toccando il problema dei problemi: il potere. E con la scelta teorico-pratica della non violenza abbiamo compiuto una delle più robuste discontinuità. Ci eravamo posti le domande fondamentali: quando conquisti il potere, il potere ti conquista? C’è un metabolismo intrinseco del potere che annulla e mistifica il programma per cui tu lo hai conquistato? Ma il potere si può conquistare? O sono luoghi da attraversare rendendo sempre vive e nominando le contraddizioni che si producono?
Quell’esperienza però si è interrotta, si è spezzata, e quelle domande non hanno prodotto una nuova pratica politica…
Ma per me il femminismo è importante perchè non risolve la contraddizione, ma la ripropone sempre, di spiazzamento in spiazzamento… Quando ho fondato Sel ho detto che non mi importava tanto del partito, ma che mi interessava la partita, non a caso, se vuoi, un sostantivo femminile. Nell’esperienza delle “fabbriche di Nichi” abbiamo discusso dell’accoglienza dei luoghi e dei tempi della politica, rimuovendo la figura del militante neutro. Ho ripetuto tante volte: se un luogo di partito non è in grado di accogliere una donna incinta, vuol dire che non può produrre buona politica. Se è sporco, se puzza, se l’orario è impossibile, se è troppo freddo o troppo caldo, vuol dire che ha inglobato un codice di esclusione. E sottolineo la maternità perché ancora oggi resta un fattore di inibizione alla vita pubblica, nella politica come nel lavoro. Siamo la patria delle dimissioni in bianco.
Anche nella recente esperienza della lista Tsipras la presenza femminile e femminista ha avuto rilievo. Tra le candidate Lorella Zanardo, Loredana Lipperini, Eleonora Forenza, poi eletta tra le polemiche sulle scelte di Barbara Spinelli. E in Sel altri nomi importanti del femminismo, da Ida Dominijanni a Maria Luisa Boccia, a Bia Sarasini, Elettra Deiana, Fulvia Bandoli – ma se ne potrebbero citare molte altre – che hanno sostenuto la scelta per Tsipras. Eppure un’altra “femminista storica”, Lea Melandri, ha rilevato l’andamento “a sesso unico” che sta caratterizzando anche il nuovo dibattito sulla ricerca di un soggetto politico perduto a sinistra…
E’ una una storia contrastata. Nessuna delle soggettività che citi è riconducibile strettamente all’altra dal punto di vista delle coordinate del proprio femminismo. Vivaddio, io penso che questo ci debba aiutare a non vivere il femminismo come una cultura politica addizionale nei confronti delle altre culture politiche. Si tratta ancora una volta di sapere che la libertà delle donne, se desideriamo che invada e determini i luoghi del cambiamento, non può essere considerata un galateo, una deontologia, ma riconosciuta come un corpo a corpo. E al corpo maschile manca ancora la coscienza di sè per poter comprendere che quel corpo a corpo può essere un gioco di umanizzazione e non un gioco al massacro come purtroppo continua a essere.
Ma vedi segnali che qualcosa possa cominciare a cambiare in questa consapevolezza maschile?
Credo che non possa tardare il momento in cui quel buco nelle biblioteche alla voce “autocoscienza maschile” sarà in qualche maniera colmato. E’ più facile vedere in filigrana nella cronaca nera piuttosto che nella cronaca politica quale sia la posta in gioco. Leggiamo ogni giorno di maschi incapaci di dirsi, che non sanno elaborare amori e disamori, che danzano attorno all’Olimpo perduto. La fase che stiamo vivendo, quella – diciamo – di una parità di genere leggera e di facili costumi, probabilmente ci aiuta perché la rivendicazione dei diritti positivi rischiava alla fine di produrre una dilazione da qui all’etermità del redde rationem con il tema vero: il fondamento, l’ontologia dell’essere femminile e maschile. Io penso che, deposte le bandiere – che ancora vanno sventolate, perché nel mercato del lavoro le donne faticano a entrare, guadagnano meno, sono poche le manager, e subiscono tante altre cose ingiuste – stiamo vedendo un salto, una accelerazione, che certo può essere vissuta in termini di mera modernizzazione dei costumi, ma anche no. Scopriamo di vivere in un’epoca curiosa in cui la secolarizzazione convive con elementi di millenarismo: la postmodernità con tutti suoi gadget si intreccia con dimensioni arcaiche, con la barbarie. Ce l’ha spiegato bene l’immagine dello sgozzamento rituale del nemico ripresa dal videotape e diffusa sul web. Dobbiamo ancora denudarci per conoscere la storia dei nostri vestimenti, della loro pregnanza semantica e politica. Ma quello che mi da speranza, al netto delle polemiche, è un mondo vivo: le donne non sono bambole di porcellana, che discutano e polemizzino anche tra loro può scandalizzare chi è morto nella testa. Il punto più alto di decostruzione del berlusconismo è stato prodotto da donne in Italia, e questo è veramente interessante. Hanno dato alla politica una bella lezione: i corpi, a cominciare dal corpo del re taumaturgo che per vent’anni ha egemonizzato la società italiana, sono la più politica delle questioni. Anche la corporeità esuberante del renzismo ha questa caratteristica fondamentale: rischia di essere una permanente rimozione della materialità delle contraddizioni e dei problemi. Di riprodurre la modernità medievale in cui viviamo, quando continuiamo a invocare un sovrano da ammirare, e capace di guarirci.