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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Private, pubbliche e politiche. Ovvero donne

18 Dicembre 2014
di Bia Sarasini

Unknown-25Donna pubblica. Niente permette una rapida comprensione dell’enorme spostamento che il femminismo ha portato nella politica quanto il riflettere su questa figura, la donna pubblica. Oggi la donna pubblica, è -– e sicuramente può essere – la donna che fa politica attiva, che ricopre incarichi pubblici, istituzionali. Ministre, assessore, parlamentari, ma anche magistrate ne rendono testimonianza. Eppure permane un elemento di ambiguità, perché l’espressione trascina con sé una specie di alone semantico, connotato dall’unico inequivocabile significato – e collocazione sociale – a cui era possibile attingere in un passato decisamente recente. Ancora dieci, massimo vent’anni fa. Donna pubblica, ovvero donna a disposizione di tutti, ovvero prostituta, ovvero puttana. Mentre sull’uomo pubblico non ci sono mai stati dubbi possibili: se è uno che si mette a disposizione di tutti, è perché è un civil servant, un uomo che esercita il suo ruolo nella vita comune, pubblica.
Parto da qui, da questa differente esperienza del nominare lo stare di donne e uomini nella vita pubblica, dai differenti significati che si stratificano e si riverberano nelle soggettività. Sono la base, queste differenze, per qualche considerazione sullo stato attuale di uno degli assi centrali sia della vita comune che delle relazioni tra uomini e donne: la complessa relazione logica e sociale tra pubblico e privato.

Non ci vuole molto a delineare la scena. Se privato è  – o meglio era –  tutto ciò che riguarda la vita quotidiana, quindi famiglia, affetti, riproduzione, insomma quella sfera dell’esistenza in cui sono sempre state relegate le donne. E se pubblico è invece tutto ciò che riguarda il vivere comune, dalla produzione alle diverse forme di governance e di potere, è evidente che oggi i parametri sono tutti sottosopra. Con un paradosso, si potrebbe dire che oggi non esiste più il privato. Non che non esistano affetti, famiglia, riproduzione, ma il netto spostamento delle donne nella sfera pubblica ha cambiato i confini e sciolto le barriere. Cosa è oggi privato, e cosa è pubblico? Si pensi per esempio a tutte le pratiche di medicalizzazione e monitoraggio della gravidanza e del parto – fino ai casi limite di ecografie in utero in diretta tv. Il cambiamento in effetti investe tutte le sfere dell’esistenza. E non credo di esagerare nel dire che ci troviamo nel terreno del non-pensato, perfino da parte delle donne che ne sono le artefici. Per esempio nei sommovimenti che hanno investito la sessualità.

Questo risulta particolarmente evidente nella lunga vicenda che ha avuto al centro Silvio Berlusconi. La recente assoluzione, il 18 luglio scorso, dell’ex-premier da parte della corte d’appello di Milano dai reati di prostituzione con minore e concussione, reati per i quali in primo grado era stato condannato a sette anni, ha creato un grande sconcerto, soprattutto in quella parte di opinione pubblica – prevalentemente di sinistra – che in questi anni si è nutrita di anti-berlusconismo. Come se il venire meno della condanna giudiziaria avesse sottratto qualunque criterio di interpretazione e valutazione, come se si fosse ristabilita la regola del privato nel senso del regno dell’individualistico, ognuno fa come gli pare. Eppure, senza entrare nel terreno del processo, che accerta responsabilità rispetto a regole precise che non necessariamente corrispondono a quelle della vita quotidiana, rimane ciò che è stato sotto gli occhi di tutti: l’intreccio tra potere, sesso, denaro. Un intreccio che acquista un carattere di profonda innovazione proprio perché non più invisibile. È questo il cambiamento. L’uomo pubblico ha sempre agito, nella sfera parallela del privato, i propri desideri, la propria sessualità. Ne era garantito proprio dall’esclusione delle donne dalla sfera pubblica. Ora succede di tutto: che mogli prendano parola pubblica, che compagne sentano la necessità di raccontare ciò che succede sotto i loro occhi, considerati complici e silenti per definizione, che madri denuncino ciò che è capitato ai loro figli, che sorelle raccolgano la testimonianza dell’impegno di un fratello. L’orizzonte degli esempi si è allargato, da Berlusconi ad alcune delle storie che occupano con forza la scena pubblica. Con voci di donna.

Potrebbe sembrare una contaminazione, accostare Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, o Rita Borsellino alle feste eleganti che avvenivano ad Arcore o a Palazzo Grazioli. Eppure si tratta di aspetti diversi di un mutamento in corso. Così impensato e non compreso che suscita confusione. Soprattutto nella sinistra. Perché alla destra viene in soccorso l’individualismo. Che neutralizza la differenza che le donne portano, ma che accoglie il loro agire come una delle forme della indifferenziata libertà individuale. Come una perfomance, che permette di assumere la veste del “contemporaneo”.

Per procedere, per affrontare ciò che più mi interessa, la difficile esperienza di una sinistra che fatica ad andare oltre il proprio radicamento nel Novecento, prendo in prestito un’affermazione di Carol Gilligan. Si trova nel suo ultimo libro “La virtù della resistenza” (Moretti&Vitale).

«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano», scrive, mentre ragiona di come il femminismo sia «uno dei grandi movimenti di liberazione che hanno avuto luogo nella storia dell’umanità. Il movimento che vuole liberare la democrazia dal patriarcato». Ecco, l’opposizione tra pubblico e privato, il permanere della separazione se non come pratica almeno come categoria interpretativa, dice come la logica del patriarcato continui a permeare anche le esperienze politiche della sinistra. Che, a differenza della destra, non riesce a trovare gli abiti che la rendano contemporanea. Un elemento che, sempre in forma di un paradosso in verità poco paradossale, viene confermata dalle scelte di Matteo Renzi, che ha affidato a volti di donna l’incarnazione dalla propria pretesa capacità di cambiamento e innovazione.

E se non è questo lo spazio per approfondire la natura del Pd, va detto che si tratta di una scelta che rompe con la tradizione della sinistra italiana. Che non ha mai portato in pubblico le reali relazioni tra donne e uomini che innervavano-innervano la vita dei partiti, grandi e piccoli. Compresa la sessualità, continuando cioè ad alimentare la divisione tra pubblico e privato, con un curioso effetto di moralismo arcaizzante. Come se non fossero state le tradizioni socialiste e comuniste a incoraggiare la libertà sessuale, l’emancipazione delle donne, come se il rigore della separazione di pubblico e privato fosse la garanzia di un ideale rivoluzionario. Una separazione che i partiti, i partiti tutti maschili del Novecento, hanno perseguito anche dopo il sessantotto e il femminismo. I risultati sono sotto gli occhi.  Donne e uomini condividono lo spazio pubblico, senza nessuna consapevolezza delle reali relazioni che esistono. Come se essere di sinistra costituisse una specie di salvacondotto, come se l’antica esperienza delle lotte per l’emancipazione potesse risparmiare dal considerare quali sono i rapporti reali. Se la cura continua a essere una qualità femminile, sempre evocata e quasi mai praticata, non sarà perché il partito novecentesco continua a trascinarsi dietro la zavorra patriarcale?

In questo quadro il femminismo, le femministe sono concepite – e forse ci siamo concepite, un punto che non è stato approfondito abbastanza – come un mondo a parte, fuori dalla comune storia politica del paese. Salvo incursioni, a volte efficaci sotto alcuni aspetti. Come nel caso della Carta delle donne, nel Pci. O del Forum delle donne di Rifondazione, o della rete femminista della Sinistra europea. Più spesso no.

Racconto questo in base alla mia esperienza. Prima in Sel, ora nella vicenda della lista L’Altra Europa con Tsipras. Ho verificato, verifico di continuo la difficoltà del rendere l’essere femminista un punto di forza nel comune mondo dell’umano. Eppure è quello che mi spinge. Perché anche il femminismo soccombe alla logica con cui vengono guardati tutti i movimenti nell’epoca della frammentazione politica. Come uno spicchio, con propri specifici obiettivi, in cui ciascun* guarda solo se stess*, senza preoccuparsi dell’insieme, soprattutto del farsi modificare dallo stare insieme. Pezzi di un mosaico che non si compone mai.

Coltivo ancora una speranza. Che la complessa esperienza della Lista Tsipras, avviata con le elezioni europee, e che prosegue ora in un cammino aperto, di assemblea in assemblea, tenga fede all’impegno di non fondare l’ennesimo partito stile Novecento. Se il patriarcato, come dice Carol Gilligan ma come sosteneva anche Carla Lonzi, è quella forma di dominio in cui gli uomini esercitano il potere sui giovani e tutte le donne, forse il cambiamento è possibile. Sono molte le donne, e i ragazzi coinvolt* in questo progetto. Sono loro che mi spingono ad avere fiducia nelle pratiche costituenti da sperimentare.

 

 

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