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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

In Carovana le madri dei migranti spariti

30 Dicembre 2014
di Franca Fortunato

Questo articolo è pubblicato sulla rivista on-line Casablanca, nel numero di dicembre –

Una Carovana si è aggirata per giorni per l’Italia. Quella dei migranti, partita il 22 novembre scorso dall’isola che per tante e tanti immigrate/i è sempre stata simbolo della “Porta della vita”, “Porta dell’Europa”, luogo di passaggio dalla fuga dalla guerra, dalla miseria e dalle persecuzioni, alla ricerca di una nuova vita in Italia e in Europa. Mi riferisco all’isola di Lampedusa dove, dopo la tragedia in mare dell’ottobre 2013, con la missione Mare Nostrum, nel mentre non arrivano più migranti, la Nato e il ministero della Difesa, dopo la Sicilia, stanno mettendo mano alla sua militarizzazione con l’impianto di numerosi nuovi radar, come hanno denunciato al LampedusaInfestival ( 25 – 30 settembre) le madri lampedusane, l’associazione Askavusa e la rete delle Città Vicine. Ebbene, da quell’isola la Carovana dei migranti ha iniziato il suo cammino come per ribadire che Lampedusa deve restare luogo d’ accoglienza, di pace e di speranza per chi si avventura nel Mediterraneo in cerca di una vita migliore. L’idea della Carovana dei migranti appartiene alle Madres centroamericane che da dieci anni, nel silenzio dei media e delle istituzioni e sotto costanti minacce di morte, ogni anno vanno alla ricerca dei loro figli scomparsi a centinaia nel deserto di Chihuana in Messico, e percorrono le strade che dall’America centrale arrivano fino agli Stati Uniti d’America. Come le madri argentine di Plaza de Mayo, pazze d’amore, pazze di desiderio di ritrovare i propri figli, le madri centroamericane hanno fatto della maternità il luogo simbolico della loro lotta, inventandosi pratiche non violente come la Carovana dei migranti che, quest’anno, per la prima volta, per iniziativa di 15 associazioni, tra cui Amnesty International, è nata anche in Italia. A rappresentare il legame con la Carovana de Madres Centroamericanas buscando a sus migrantes, c’erano Rosa Nelly Santos, Marta Sanchez Soler, coordinatrice del movimento migrante mesoamericano, padre Alejandro Solalinde, direttore del centro migranti “Fratelli in cammino” nello stato di Oaxaca e coordinatore del Centro pastorale cattolico di cura per i migranti nel sud ovest del Messico e Josè Jaques Medina, fondatore e presidente del primo sindacato di operai senza documenti e del sindacato nazionale dei lavoratori migranti del Messico.
Alla Carovana si sono unite anche le madri tunisine, Mounira Chagraoul e Noureddine Mbarki, venute in Italia in cerca dei loro figli, in rappresentanza delle madri dei 501 migranti tunisini scomparsi nel nulla dal 2010 ad oggi. Le Madri tunisine sono convinte che i loro figli siano ancora vivi . E’ certo che molti di loro erano già arrivati in Italia prima di sparire, li hanno riconosciuti nelle immagini dei notiziari italiani, e a volte i loro nomi sono perfino comparsi in rapporti della croce rossa, come quello di Amin Ben Hassine, figlio di Chagraoul.
Amin è il primo tunisino scomparso nel buio. Giovane della sinistra laica tunisina, dopo aver partecipato alla “primavera araba”, per sfuggire agli ultimi colpi di coda del regime di Ben Ali, nel settembre 2010 è scappato dal suo Paese, insieme con altri quattro amici, su una piccola imbarcazione di famiglia. Per un anno i suoi genitori lo hanno creduto morto nel Mediterraneo, ma poi lo hanno riconosciuto nelle immagini dei notiziari italiani. Amin e i suoi compagni di viaggio dopo tre giorni dalla partenza, sono stati raccolti da una motovedetta dei carabinieri e scortati fino a Lampedusa da dove, dopo l’identificazione, sono stati mandati nel Cie di Caltanissetta. Dopodiché le loro tracce si sono perse nel buio.
Stessa sorte è toccata a tutti gli altri desaparecidos, suoi connazionali. Le loro madri da quattro anni li cercano, vogliono sapere, non si rassegnano, chiedono aiuto ai governanti tunisini e italiani. Il presidente Giorgio Napolitano, in visita a Tunisi, promette loro il suo aiuto. Ma tutto tace. La madre di Amin, per quattro mesi, ogni giorno, va di fronte all’ambasciata italiana a Tunisi. Vuole che le autorità italiane la aiutino a trovare suo figlio. Nel 2012, prese dalla rabbia e dallo sconforto, due madri, Jeanette Heimi e Quahida Callel, si danno fuoco nella pubblica piazza. E’ allora che la madre di Amin decide di venire in Italia, giurando a se stessa di non andarsene finché non avesse scoperto cosa fosse accaduto a suo figlio.
Le Madri raccolgono i nomi dei loro figli in un libretto bianco e blu, stampato in un’unica copia, e glielo consegnano. Dopo qualche mese la raggiunge Noureddine Mbarki, madre di Karim, dopo che un conoscente da Palermo le dice di aver visto suo figlio in un servizio del Tg5. Per tre anni le due madri hanno vissuto tra dormitori, istituti di carità e sistemazioni di fortuna, spostandosi da Lampedusa, Caltanissetta e Roma. E’ qui che un mese fa i volontari della Carovana dei migranti le hanno trovate accampate alla stazione Termini, perché da giorni erano rimaste senza un posto dove dormire. A loro hanno mostrato il libro bianco e blu con i nomi, la data e l’età di tutti i figli al momento della sparizione. Giovani di 19, 20, 22, 24, anni. E’ così che Mounira e Noureddine, il 22 novembre, e tutta la Carovana sono partite da Lampedusa per sbarcare in Sicilia, a Catania, dove la rete delle Città Vicine, la Rete antirazzista, l’Udi e la rete Ragna- tela, a cui aderiscono oltre 20 associazioni tra cui la Città Felice, hanno ospitato le madri e i volontari della Carovana nelle loro case, dopo una giornata di iniziative e scambi all’interno di una manifestazione femminista comunitaria contro la violenza sulle donne e la visione di video sul Muos e il Cara di Mineo, il Centro di “accoglienza” per richiedenti asilo politico tristemente divenuto simbolo di detenzione e di violenza sulle donne immigrate.
La Carovana si è poi spostata a Niscemi dove alle madri tunisine si sono unite le madri del No Muos, che da anni lottano, anche per noi calabresi, contro l’installazione del sistema satellitare di telecomunicazioni della marina militare statunitense, che consentirà agli Usa di controllare le comunicazioni su tutto il pianeta, grazie a quattro installazioni terrestri e cinque satelliti, e a guidare i droni, i micidiali caccia senza pilota, di stanza a Sigonella, e così potranno fare la guerra standosene comodamente seduti davanti a un terminale. Le madri argentine volevano i corpi dei loro figli, le madri centroamericane e tunisine vogliono trovare i loro figli che sanno essere vivi, le madri di Lampedusa e di Niscemi vogliono che i propri figli e figlie nascano e crescano in un luogo sicuro, senza la paura di ammalarsi e morire, a causa delle radiazioni. Il loro è un urlo alla vita, alla pace e alla speranza, che va raccolto e raccontato.
La Carovana dei migranti, lasciata la Sicilia, attraversato lo Stretto, ha iniziato la risalita della Penisola, su su, fino alla Terra dei fuochi, dove altre madri si sono unite ad essa, le madri degli uomini uccisi dalle esalazioni dei rifiuti tossici. Il 26 novembre si è fermata anche in Calabria, a Polistena e Rosarno, dove Chiara Garri, ricercatrice di Amnesty International, ha presentato i dati raccolti nei due anni dall’entrata in vigore della “legge Rosarno”, denunciando come le politiche di criminalizzazione dei migranti “irregolari” hanno compromesso “la possibilità di accedere alla giustizia e alla piena riparazione”. Seguendo la rotta dei migranti, la Carovana ha attraversato la Basilicata, la Puglia, il Lazio, la Toscana, la Lombardia e il Piemonte dove è arrivata il 5 dicembre a Torino. Con un convegno conclusivo e una festa che è andata avanti per due notti ,in piazza Castello, si è conclusa così la prima esperienza della Carovana italiana dei migranti. Lo stesso non si può dire delle madri centroamericane e tunisine che continueranno a cercare i propri figli scomparsi, finché non l’avranno trovati.

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