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L’ira, la guerra e la cura

18 Settembre 2014
di Bia Sarasini

Unknown-20Alcune giovani donne, quattro per l’esattezza, sono sedute intorno a un piccolo tavolo, proprio sotto una finestra. Una è di spalle, forse in visita, ha uno scialle sulle spalle e un manto appoggiato sulla poltrona. Le altre sono concentrate sul lavoro che hanno tra le mani, cuciono camicie rosse. E così si intitola il quadro, molto noto, di Odoardo Borrani, pittore macchiaiolo legato a Silvestro Lega, dipinto nel 1863: Le cucitrici di camicie rosse.

Un’immagine stridente, in una ricerca sulle tracce delle forme dell’epica femminile. Non si tratta forse di un interno, di un piccolo mondo domestico, contrapposto al fuori, là dove gli uomini fanno il mondo? Eppure questa opera, di cui ho sotto gli occhi una piccola riproduzione poggiata sulla scrivania dove lavoro, mi ha interrogato con forza, mentre ero sulle tracce di guerriere come Martha Quest, la protagonista dei cinque volumi della serie “I figli della violenza”, e della sua “cantatrice” Doris Lessing. Come se mi volesse segnalare il rischio di non vedere i fili che cuciono insieme imprese dalla natura molteplice, differenziata, eppure intimamente connesse e non solo perché l’una è l’ombra dell’altra. Come se dicesse che si corre il rischio di non comprenderlo, lo spostamento che muove l’azione femminile, se non si rovescia l’angolatura, il paradigma, se non lo si guarda dal punto di vista delle ragazze chine sul loro lavoro, un punto dopo l’altro. E che cosa raccontano, del mondo, queste donne sedute sotto la finestra? Come succede nelle immagini, la narrazione è polivalente.

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In un ambiente borghese, domestico e sereno, connotato da una consolle Biedermaier sulla destra, stile austriaco come per il divano e la poltrona, quattro donne “all’opre femminili”[1] intente, sono partecipi di grandi epopee. A fugare eventuali dubbi, sulla parete a destra è appeso il ritratto virato seppia, appena accennato ma riconoscibile, dell’eroe: Giuseppe Garibaldi. L’atmosfera è intima, la luce che viene dalla grande finestra, filtrata dalle tende bianche, raccoglie in uno spazio assorto questo gruppo femminile che mette molta cura in quello che fa. Il rumore, lo strepito, l’audacia, il coraggio, il sangue, la morte che fanno parte dell’impresa, (qui si fa l’Italia o si muore, disse un giorno l’eroe) sono lontanissimi, eppure così presenti, nella stoffa rossa che prende forma nelle loro mani. In quelle camicie sono evocati gli uomini a cui sono destinate, di cui le amiche si scambiano notizie. Padri, fratelli, fidanzati, mariti, amici che combattono per l’indipendenza, per costruire la nazione. È evidente che l’artista ha scelto l’interno di una casa per dare il senso del sentimento comune che ha sostenuto il Risorgimento, per restituire una commozione che nel 1863 è già venata di nostalgia, dopo la proclamazione del regno d’Italia e il venire meno di speranze e illusioni. La storia che racconta Anna Banti in Noi credevamo, epopea degli ideali sconfitti che ha ispirato l’omonimo film di Mario Martone (2010). Ma non hanno a che fare con il Risorgimento, e le connesse interpretazioni e ricostruzioni, le domande suscitate dalle Cucitrici mentre leggevo (ri-leggevo) le imprese di Martha Quest, cantate da Doris Lessing, a partire dalla scelta di quel cognome evocativo, il termine che in inglese indica un’epica “ricerca”, il viaggio verso un fine agognato e difficile da raggiungere – sia esso il Graal delle leggende arturiane o il ritorno a Itaca. Il pungolo viene dalla rappresentazione che il pittore ha suggerito. È nella casa, dice il quadro, tra le mani delle donne che cuciono per gli uomini che combattono, che si coglie il senso autentico dell’impresa, della comune impresa, di uomini e donne. Insomma, c’è un nesso, tutto da indagare. E poco importa che tutto sembri codificato e conosciuto, che del classico schema dentro/fuori, casa/mondo, per di più nell’Ottocento, si pensi di non avere più nulla da scoprire. È come se queste cucitrici dicessero: non ti fare ingannare dai ricordi scolastici, dall’Ottocento della restaurazione e delle crinoline, di donne che svengono per un nonnulla, non siamo donne che coltivano piccole virtù, sentimenti quieti, noi combattiamo. C’è qualcosa che fuoriesce, esorbita dagli schemi, anche i più avvertiti, che rischia di restare invisibile. In questo caso: la complessa relazione tra vita quotidiana e guerra. Nel ri-scrivere l’epopea risorgimentale in Una storia romantica, il suo esperimento di romanzo storico, Antonio Scurati offre una chiave di lettura sia del quadro di Borrani che della differente “guerra” che conducono donne e uomini:

 

Vedete, amico mio, noi abbiamo sempre rappresentato le nostre donne come pie e costumate cucitrici di bandiere o di camicie rosse. Donne che a gruppo o in solitudine, a capo chino, con i loro capelli ben raccolti e lo sguardo assente, si curavano di noi con l’ago e il filo. Ma la verità è che le compagne dei nostri giorni migliori si liberarono nell’amore mentre noi ci liberavamo nella lotta. La libertà, in fondo, è sempre una sola (Scurati 2010, p. 502).

 

Da un lato si tratta di una rappresentazione, dice il personaggio che ha la parola, il pittore Silvestro Lega: una rappresentazione falsa e falsificante, anche allora, non solo per la ri-scrittura contemporanea. Dall’altro c’è una lotta per la libertà. E per cosa lottavano quelle donne?

Va in frantumi quello che nella lontananza dall’Ottocento sembrava così netto: ruoli cristallizzati, donne che sono donne, uomini che sono uomini, eroi che sono sempre (maschi) giovani e belli, come canta Francesco Guccini – a cominciare da Garibaldi, antico Che Guevara biondo dell’immaginario popolare e femminile. Per questo le cucitrici, e le loro simili, sono così interessanti. Oggi, guardandole, non vedo, come mi sarebbe successo in passato, donne confinate in un interno, eterne inseguitrici di un mondo di cui non fanno parte, ancelle di un’impresa che non è la loro. So che così sono state viste e raccontate, e so che non è – non solo – la loro esperienza. Guardo il mondo con i loro occhi, ne comprendo l’intensità, la forza dell’azione. Riconosco i punti con cui tengono insieme il mondo, insieme alle parole che si scambiano, come scrive Josè Saramago (1996, p. ): “è la grande, interminabile conversazione delle donne, […] se non ci fossero le donne che si parlano tra loro, gli uomini avrebbero già perso il senso della casa e del pianeta”.

Per ora sospendo il giudizio. Non so se in quella stanza luminosa ci sia un’epica da cantare: i tavoli da lavoro sono stati messi sottosopra, le donne sono uscite, hanno cercato la libertà dal matrimonio, dai mariti, dai figli, dalle “opre femminili”. Ma forse lo è, da cantare, il senso di quel nesso: tra lo stare, l’azione e il sangue. Soprattutto dopo che tutto è andato all’aria, come è possibile comprendere da qui, dall’osservatorio degli anni Dieci del Duemila, dopo che è passato tutto, anche il Novecento con il suo carico di guerre, violenze, rivoluzioni. Allora, cosa si canta, ora che le donne occupano lo stesso spazio pubblico degli uomini? Ora che la casa fa parte della scena, del mondo, non ne è più il segreto ripostiglio, luogo della riproduzione (della vita) separato dalla produzione? Qual è l’impresa, qual è lo spostamento, qual è il mondo che si rappresenta? Ci sono eroine, ma di cosa? E gli eroi, mano mano che le eroine avanzano nel mondo, per questo si cantano sconfitti? E non dovrebbe essere – questa relazione, questo doppio movimento – a sua volta oggetto di canto e narrazione?

 

Paola Bono e Bia Sarasini ( a cura di) Epiche. Altre imprese, altre narrazioni Iacobelli Editore, Roma 2014, 240 pagine, 14,90 euro


[1]          Sono i celebri versi di “A Silvia”, lirica di Giacomo Leopardi scritta nel 1828 e pubblicata nel 1831 nei Canti: “Sonavan le quiete/ stanze e le vie dintorno,/ al tuo perpetuo canto,/ allor che all’opre femminili intenta/ sedevi, …”. E se solo per inciso ricordo che Giacomo Leopardi valutava “che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne” (Zibaldone 4475), e che attraverso il mito di Silvia il poeta parla di se stesso e del proprio destino – qui interessa la meravigliosa nominazione dei lavori femminili, in questo caso il telaio, considerati nella loro materialità (“sudata tela”). Una nominazione così potente da diventare tassonomica, paradigmatica.

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