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Libertà nelle nostre mani

19 Agosto 2014
di Letizia Paolozzi

imgres-2Negli anni Settanta, migliaia di donne in Italia e in Europa sono scese in piazza per protestare accomunate dallo stesso gesto: con le mani congiunte, a formare il simbolo del sesso femminile, hanno rivendicato con forza e come mai prima di allora il diritto di vivere una sessualità libera e di riappropriarsi del loro corpo. A partire dalle molte fotografie di questo gesto, che hanno contribuito a formare l’iconografia e l’immaginario estetico del femminismo, ora un libro edito da Derive Approdi e curato da Ilaria Bussoni e Raffaella Perna ( Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte. 168 pagine, 17 euro) ripercorre alcune esperienze di un movimento che si è configurato come la sfida più radicale alla cultura patriarcale. I testi sono di: Paola Agosti, Silvia Bordini, Ilaria Bussoni, Collettiva XXX, Stefania Consigliere, Laura Corradi, Anna Curcio, Agnese De Donato, Francesca Gallo, Claire Fontaine, Federica Giardini, Vanessa Martini, Alina Marazzi, Cristina Morini, Lelia Pisani, Letizia Paolozzi, Raffaella Perna

Pubblichiamo qui il saggio di Letizia Paolozzi

Negli anni Settanta l’ordine sociale risente ancora del sommovimento del ’68. Le donne pensano: in tanto empito rivoluzionaria, abbiamo ridotto al silenzio il rapporto con gli uomini. Che non ci entusiasma. Per questo è tempo di affrontarlo. Magari servendoci di un gesto muto e tuttavia capace di descrivere, senza verbalizzarla, la relazione complessa, che attraversa gli scambi quotidiani (quelli di mercato e quelli d’amore; quelli sociali e quelli culturali) tra femmine e maschi.
Di qui le braccia sollevate, i pollici e gli indici uniti. Un modo per nominare cosa lega e cosa divide i due sessi.
Spera l’altra metà del cielo (quella che nel frattempo è diventata femminista con tutto l’eccitamento e la veemenza di una simile congiuntura) che lui si interroghi su quel segnale baldanzoso e spudorato. Potrebbe interpretarlo come la domanda di uno scambio diverso. L’invito ad ascoltare un punto di vista differente giacché il sesso femminile – questa la comunicazione – non vuole più giocare in un ruolo secondo.
Ma lui finge di essere sordo. Magari lo è veramente. Non gli importa granché delle recriminazioni delle “compagne”; del ridicolo braccio di ferro che pare l’altra metà del cielo abbia ingaggiato con l’antico dualismo cartesiano mente-corpo. Piuttosto lo preoccupa l’esplosione di una fastidiosa tendenza a criticare l’organizzazione virile della Città da parte di quante gli erano (fino a un minuto prima) fedeli nella buona e nella cattiva sorte, nelle lotte e nella repressione.
Il sesso partecipe delle “magnifiche sorti e progressive” pare non aver più fiducia che “da quella rivolta simbolica (ndr-del ’68) si sarebbe cambiata la società” (Autori vari Traversate d’Occidente. Conversazioni con Michel de Certeau, pag. 24, traduz. a cura di Cristiano Casalini, 2014, edizioni Medusa, Milano).
C’è uno spostamento dalla lotta di classe a quella tra i sessi? Roba incredibile. Succede di vedere donne riunite insieme, senza l’ombra di un maschio. Le femministe – poiché a loro ci riferiamo – lo chiamano separatismo. Destabilizzare l’ordine eterosessuale e spostare le frontiere fino a quel punto considerate obbligatorie per la coppia uomo-donna: è chiaro che lì va a parare un gesto tanto irresponsabile.
Rughe di preoccupazione aggrottano la fronte maschile. Peraltro, se andiamo avanti in questo modo, è sicuro che gli uomini perderanno la posizione di pre/dominio. Esploderà il caos.
Figlie, mogli, fidanzate, sorelle, amiche, amanti rinnegano la favola della costola di Adamo da cui si narrava fossero nate. Al povero maschio sbattono in faccia questo rifiuto. Nella coppia liti e riconciliazioni si susseguono a un ritmo frenetico. Ora, annunciano trionfanti le femministe, siamo padrone della contraccezione, del corpo, della sessualità. Perciò “Un bambino: se voglio, quando voglio, come voglio”.
Queste femministe progettano pure di decostruire il logos maschile che ha punito le progenitrici Eva, Lilith, Pandora. Mangiare il frutto proibito, rifiutare il talamo nuziale, aprire il vaso dalle mille infelicità sono stati atti di disobbedienza inutili. Dalle armi della critica alla critica delle armi?
Per via dello sconquasso sentimental-sessuale e dunque dell’orgoglio ferito, qualche maschio reagisce affidandosi ai muscoli come accade con il servizio d’ordine di Lotta Continua intestardito a prendere la testa di un corteo di femministe sull’aborto (siamo a Roma, il 6 dicembre del 1975). Ma gli uomini non contrattaccano. Nonostante le quattro dita unite a triangolo – mossa polisemica – sorreggano la rivolta simbolica di un sesso che si considera libero dai padri, mariti, fidanzati, fratelli, amici, amanti.
In effetti, le donne hanno scoperto la libertà femminile.
Molti anni dopo, nel rivendicare desideri, bisogni e interessi esorbitanti rispetto alla condizione “di classe” (Franca Chiaromonte Letizia Paolozzi Il taglio. Due femministe raccontano la fine del Pci, Datanews, Roma, 1992), un gruppo di comuniste deciso a spostare l’attenzione sul legame tra soggettività e politica, arriverà a firmarsi: “La libertà è nelle nostre mani”.
Tornando agli anni Settanta, meglio sarebbe stato per gli uomini interrogarsi sulla qualità dei rapporti. Invece scrollano le spalle mentre le femministe tirano fuori un elenco lunghissimo (e sacrosanto) di accuse: siamo vittime della vostra violenza. Volete colonizzare il nostro immaginario; quando va bene, ci concedete graziosamente di accudire i bambini, di badare agli anziani, di indossare la divisa da infermiera; mai i guanti del chirurgo. Crescete e vi moltiplicate grazie a noi, però non date alcun valore al nostro prenderci cura di voi.
L’imballarsi delle relazioni tra maschi e femmine nella sfera economica, sociale e politica dovrebbe suggerire che “la donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta, quanto la nostra libertà. L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo di scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna” (cfr, Dal “Manifesto” di Rivolta Femminile, di Carla Lonzi. Luglio 1970).
L’uomo però si aggrappa alla sua posizione. Tanto “Ha da passà ‘a nuttata”.
Cecità maschile, ammettiamolo pure, rispetto all’emergere della soggettività femminile. Sentenzia Lacan: “Per quanto paradossale questa formulazione possa sembrare, diciamo che per essere il fallo, cioè il significante del desiderio dell’Altro, la donna rigetterà una parte essenziale della femminilità, specialmente tutti i suoi attributi nella mascherata. Ella intende essere desiderata e amata ad un tempo per quello che non è (Jacques Lacan Scritti a cura di Giacomo Contri, volume secondo pag. 692, Einaudi, 1974).
Se ne deduce che la donna è l’oggetto di un discorso parlato dal “sesso forte”. Quanto agli slogan “Io sono mia”; “Il corpo è mio e lo gestisco io” sono, appunto, degli slogan che si perdono nell’aria. La ricreazione sta per terminare e la campanella suonerà tra poco.
Errore! Perché lei, al contrario, sbatte la porta di casa. Abbandona frettolosamente biberon e pannolini mentre lui quel gesto non può imitarlo: una risata lo seppellirebbe.
Sappiamo qualcosa delle reazioni rabbiose (che ancora oggi si replicano nei casi di violenza ma, diversamente dagli anni Settanta, generano un’ampia condanna sociale); poco di ciò che capita all’identità maschile in quella fase.
Una fase nella quale la sessualità si rivela un terreno molto accidentato e la fidanzata proclama la superiorità della donna clitoridea su quella vaginale e la moglie, la sorella, la madre tutto a un tratto si presentano dall’analista tre, quattro volte alla settimana oppure dedicano intere serate all’autocoscienza.
Nel frattempo, le braccia sollevate dalle femministe e l’iconografia del triangolo segnalano il bluff di quella storia lì, così, dell’uomo che possiede la luce della ragione e della donna che interroga il cuore, i sentimenti, le passioni.
Via! Chiudiamola qui con il sistema di valori e convenzioni sociali fondate sul pregiudizio, sulla rimozione della carne, sul dileggio della mente femminile. Cari maschi, se supponete che siamo definite dall’apparato riproduttivo, se dunque ci consigliate una educata passività, bé siamo pronte a dimostrarvi quanto (pure senza il vostro contributo) quello stesso apparato sia attivo e portatore di piacere. “Col dito, col dito, orgasmo garantito”. Traduzione: Io, donna, di te maschio non ho proprio bisogno. Quindi, la relazione tra di noi va coltivata con sottigliezza e fantasia oppure non mi interessa.
Vacilla l’archetipo maschile del seduttore, dello sciupa femmine, del padre padrone. Si sentono rumori sinistri dalle parti del principio di autorità. Viene abbandonata la doxa ufficiale della femminilità, abnegazione, obbedienza. Le mani alzate a imitare la vagina ne sono la dimostrazione.
Appunto, le mani. Nei manuali di fine Ottocento ci si preoccupava che potessero tradurre (e tradire) sentimenti e emozioni: andavano tenute a freno. Fino a Eleonora Duse che, da attrice, le usò sul palcoscenico quasi fossero alate, vibranti, pensanti. Pensanti lo erano sicuramente per le femministe intenzionate a ridicolizzare l’autoritarismo maschile screditandone il potere.
Ma dove nasce una simile performance? Non se ne trova traccia nell’America patria dei e delle figlie dei fiori, delle audacie sessuali, dei puritani oscurantisti e dei liberali avanzati (molto prima del “politicamente corretto”, dell’Aids e del Monicagate).
In Italia, nel ’77, il triangolo pubico lo citano ragazze giovani e meno giovani. A distanza di sicurezza si leva il segno della P38 (e forse appartengono allo stesso mood le militanti con indice e medio che si aprono e chiudono ritmicamente per significare il taglio delle forbici e precipitare gli uomini nell’incubo della castrazione).
Sono al corrente le femministe degli anni Settanta della figura geometrica dalle linee incise sulle statuette con il busto allungato, le gambe unite, le natiche pronunciate dell’arte scultorea Cucuteni? (si veda Marija Gimbutas ne La civiltà della dea, Vol. I, traduzione a cura di Mariagrazia Pelaia, p.123, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri , 2012, Viterbo)
Che si approprino della suggestione colta della Grande Madre oppure scelgano una semplificazione radicale, certo, quella delle femministe è una grandiosa “mossa simbolica” (prendo a prestito la definizione da un importante libro di Annarosa Buttarelli Sovrane L’autorità femminile nel governo, Il Saggiatore, Milano, 2013 nel quale sfilano figure di donne capaci di produrre, attraverso pratiche relazionali e di cura, un cambiamento radicale e una nuova convivenza).
Una “mossa simbolica” che gli uomini non intercettano. Presi come sono dagli attentati che subisce la concezione “tradizionale” della virilità, il narcisismo, la vanità. Nonostante “il guardare verso l’esterno crea legami sociali più validi che non l’immaginarci che gli altri siano riflessi in noi, o che la società sia una sorta di stanza degli specchi” (nel denso testo di Richard Sennett Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 2014 traduz. dall’inglese di Adriana Bottini, pag.304), il sesso maschile si ritrae, alla maniera della tartaruga, nel proprio guscio.
Anzi, per bloccare una realtà in trasformazione, si rivolge a modelli e comportamenti del passato. D’altra parte, a sua discolpa, bisogna pur convenire che le radici delle nostre pratiche politiche, istituzionali, culturali affondano in un orientamento simbolico patriarcale. Questo orientamento non finisce all’improvviso.
Aprirsi a nuove prospettive, a modalità relazionali condivise comporta sempre dei rischi. Per queste ragioni, il gesto delle dita unite, pur all’origine del cambiamento, avrebbe faticato a produrre effetti di trasformazione evidenti nell’altro sesso.
Benché, sotterraneamente, lo scavo della vecchia talpa fosse cominciato.

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