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La barba di Conchita e il suicidio della virilità

18 Maggio 2014
di Anna Costantini

searchL’immagine di Conchita Wurst, vincitrice della 59esima edizione dell’Eurovision Song Contest, che ha fatto nei giorni scorsi il giro del mondo, ha detto a tutti noi qualcosa di molto nuovo. L’artista austriaca ha 25 anni, si chiama in realtà Thomas Neuwirth e sappiamo di lei che dal punto di vista fisico non può essere definita un transgender in quanto non ha mai fatto l’operazione chirurgica per cambiare il sesso di origine. Sarebbe quindi più esatto utilizzare l’espressione drag queen, cioè un artista – cantante o attore, in genere qualcuno che si “esibisce” – che indossa abiti che d’abitudine caratterizzano il sesso opposto (to drag, in inglese). Una drag queen non nasconde di essere qualcosa di diverso da una donna: nell’esibire in maniera accentuata i caratteri stereotipi del femminile visto dal maschile – dalle forme fisiche al trucco, dalla biancheria ai vestiti succinti, dalle acconciature ai tacchi delle scarpe vertiginosi – sta la sua “accettabilità”.
Non posso sbagliare, so che è un uomo che si veste da donna e va bene così perché è una maldestra imitazione, sta su un palco e mi fa molto ridere in questa sua sgangherata imitazione. Non mette in discussione né può criticare il modello maschile perché è una caricatura volontaria, un falso (la voce in falsetto) che l’uomo non può confondere. Un travestito che si prostituisce è “difeso” dal rapporto di potere e di degradazione quasi sempre associato, cioè l’uomo che compra il sesso instaura per definizione un rapporto caricaturale che non confonde l’identità: non la mette in gioco grazie – appunto – al “contratto d’uso” stabilito dalle parti in cui l’inferiorità di chi è pagato è parte integrante.
Ma Conchita Wurst, che oltre a vestirsi in abiti femminili pur essendo un uomo porta la barba, non fa ridere, né tanto meno si sottomette alle leggi del mercato sessuale. Non rientra neanche nella galleria del Circo Barnum, e quindi nella morbosa compassione che si prova per il freak. Per evidenza, non è la donna barbuta, neanche quella del geniale personaggio del film di Marco Ferreri. La Wurst è, con certezza, un uomo barbuto, quasi l’uomo per eccellenza, se si considera che la barba è il segno nell’uomo del passaggio dall’adolescenza alla virilità. Ma Conchita Wurst si chiama e si veste come una donna.
Lo scandalo che ha suscitato è la confusione che crea in noi. E ci dice – qui sta la sua straordinaria novità – che il tempo del travestimento è passato per sempre. La virilità è un concetto che oggi muore, si potrebbe dire suicida. E quello che proviamo – l’incertezza, lo stupore, la condanna – di fronte a quel carattere sessuale secondario maschile non è altro che paura di non distinguere più e quindi di non sapere più con certezza chi siamo noi. Questo moderno Cristo barbuto – la blasfemia è parte integrante del grande scandalo suscitato, considerando che il Cristo barbuto è l’iconografia portante della cultura cristiana delle origini – si è felicemente immolato davanti ai media del mondo per raccontarci una mutazione antropologica, non più ascrivibile a una semplice, rassicurante rappresentazione.

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