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In una parola / Riforme (e rivoluzioni)

9 Maggio 2014
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 6 maggio 2014 –

La parola riforme è stata utilizzata in questi anni di austerità in un modo tale che può venire in mente il noto motto nazista a proposito della parola cultura : “quando sento parlare di riforme metto mano alla pistola…”.
Scherzi a parte, sarà possibile ridare al termine il significato di cambiamento positivo? O resterà il ricordo delle lacrime di Elsa Fornero, del tutto giustificate, quando annunciò la riforma delle pensioni?
Sarà per questo che Matteo Renzi parla addirittura di rivoluzione. Per ora è un indirizzo di posta elettronica. Ma – come ha osservato recentemente Aldo Tortorella – il fatto che questa parola, un tempo molto temuta, torni tanto di moda (da Renzi a Grillo, allo stesso Papa Francesco) “è sempre un indizio di una situazione insostenibile, particolarmente in Italia, ma non solo in Italia. Non si sentirebbe invocare una qualsiasi rivoluzione se le cose andassero per il meglio”.
Il punto è che il cambiamento invocato non si riveli qualcosa di ancora peggiore. In questo momento produco in genere irritazione e dissenso in amici e amiche di sinistra affermando che alcune delle cose che dice di voler fare Renzi non mi sembrano da respingere a priori (meno distanza tra le retribuzioni di capi e semplici lavoratori, come voleva Adriano Olivetti, meno tasse per i redditi più bassi, più efficienza della pubblica amministrazione, e altro ancora…).
La riforma istituzionale, per esempio. D’accordo con le forti preoccupazioni per la rappresentatività e il sistema delle garanzie. Ma una risposta credibile alla crisi verticale in cui è caduto il sistema politico è urgente e necessaria. E l’idea di una semplificazione dello stato ripartendo da un ruolo anche simbolicamente rilevante delle autonomie comunali, le uniche che in Italia conservano una certa credibilità da parte dei cittadini, non mi sembra sbagliato.
Semmai bisognerebbe concentrare la critica e l’iniziativa su come reinventare e valorizzare concretamente la partecipazione politica “dal basso” nei territori. E su come connettere questa riforma con una nuova democrazia europea, che renda condivisibile la cessione di sovranità nazionale.
Ma la crisi della rappresentanza non si risolve se non cambia radicalmente anche il modello dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica. E non solo agendo finalmente contro conflitti di interessi e monopoli. Perché non immaginare – ora che si parla anche di riforma del canone per la Rai – un ruolo del tutto diverso dell’informazione pubblica, con l’obiettivo di concentrarsi sui meccanismi culturali, professionali e tecnologici necessari a un’opinione realmente libera e informata?
Altro esempio: la riforma della amministrazione pubblica. Sarebbe giusto ripartire dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori (e non bastano certo le e-mail). Si parla molto di merito e di fannulloni, mentre si rimuove la cosa principale, cioè la motivazione di chi lavora (che non vuol dire solo premi in denaro). Inoltre bisognerebbe sapere chi sono realmente questi lavoratori. Nel caso si tratta in notevole maggioranza di donne (la cui presenza si assottiglia mano a mano che si sale nella scala gerarchica).
Sarebbe strano che un governo che si è fatto tanto bello della presenza femminile, e una ministra competente, rimuovessero questa realtà. Che richiederebbe, per dire una sola cosa, un intelligente scambio tra efficienza e motivazione, e organizzazione più flessibile dei tempi e dell’organizzazione del lavoro. Potrebbe partire proprio dal mondo dell’impiego pubblico una sperimentazione su questo terreno utile per tutte e tutti.

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