Storie / Corsivi

racconti di persone, polemiche ad personam

In una parola / Social

9 Gennaio 2014
di Alberto Leiss

Questa rubrica è stata pubblicata su il manifesto il 7 gennaio 2014

Che cosa dobbiamo pensare dei social network? Un’idea precisa io ancora non ce l’ho. Mi ha molto disturbato tutto il chiasso sollevato dai commenti disumani contro Bersani. Mi sono chiesto, tra l’altro, se abbia senso riprendere e rilanciare in rete insulti e volgarità, amplificandoli, con l’intenzione di criticarli e combatterli.
Qualcuno ha giustamente osservato: il numero delle persone, di tutte le fedi politiche, che hanno sentito il bisogno di indirizzare pubblicamente all’ex segretario del Pd in ospedale parole affettuose è stato incommensurabilmente maggiore di quanti lo hanno insultato.
Eppure il linguaggio violento, la manifestazione dei sentimenti peggiori, ha una sua forza difficilmente contenibile, anche se agito da minoranze infime. Forse non si tratta nemmeno di “contenerla” questa forza, per esempio “moderando” con più attenzione quanto si pubblica in rete. I social network ci obbligano a una sorta di quotidiano esame di coscienza dei sentimenti pubblici che in tempo reale e su una quantità enorme di questioni sempre più individui decidono di dichiarare. Potrebbe non essere un male, giacchè i sentimenti peggiori stanno sempre in agguato in ognuno di noi.
Un’idea da combattere – di questo sono sicuro – è che gli scambi sul web possano in qualunque modo sostituire le relazioni reali in cui mentre si parla ci si guarda e ci si ascolta. Vale per quello che si dice a una persona malata, così come per il dialogo e il confronto vivo necessario per costruire una azione collettiva, un partito, una associazione (ecco l’equivoco principale sul ruolo della rete brandito da Grillo).
Consolante la notizia, che nelle ultime settimane ha fatto il giro di numerosi media (siti, giornali, tv), sulla “social street” nata a Bologna in via Fondazza. Qui l’uso di Facebook ( integrato con i vecchi cari volantini da affiggere sotto i portici) è servito a mettere in relazione centinaia di abitanti del quartiere che nemmeno si conoscevano, e sono nate varie forme di scambio, di amicizia e di servizi in comune. Ne è nato anche un sito, www.socialstreet.it, dove si citano numerose altre esperienze simili, in una trentina di città italiane.
Abbiamo capito dal contraddittorio e doloroso sviluppo delle rivolte arabe che non bastano i tweet e i blog per assicurare il successo di una rivoluzione. Ma scoprire che parlando con il vicino di casa si può fare il bucato in una lavatrice in comune nello scantinato del palazzo non è già qualcosa di rivoluzionario?

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