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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Italia e India: la parola delle femministe

18 Settembre 2013
di Letizia Paolozzi

Italia e India. Due paesi non paragonabili. Eppure, è interessante osservare come rispondono alla violenza sulle donne. Come risponde lo stato; come rispondono le femministe.
Tanto per cambiare, il Parlamento italiano è stato nuovamente teatro di un sussulto emergenziale (anche se, per alcuni, i dati non confermano l’emergenza). Resta il fatto che sono uomini a perpetrare la violenza sulle donne. Le proposte inserite nel decreto legge in materia di sicurezza sono circolate come “una vittoria delle donne”. Non è proprio così. E le nuove norme non vanno alle radici del male. Anzi, rassicurano ed evitano di riflettere su questa ferita che ci continua a infliggere il patriarcato. Pochi sono gli uomini disposti a partire da sé, dalla sessualità maschile. Preferiscono dividere i buoni dai cattivi; gli “umani” dagli “animali”. Che poi i corpi maschili e femminili non siano uguali e le relazioni d’amore tra i due sessi nascondano la faccia in ombra, quella della dominazione maschile e dell’inferiorizzazione femminile è problema troppo complicato per le istituzioni.
Peraltro il sesso, una volta definito debole, sembra non più disposto a rinunciare alla sua libertà. Questa libertà vuole giocarsela come più gli aggrada.
Comunque, il premier Letta ha vantato la soluzione scelta dal governo. Le parlamentari dei vari schieramenti – per quanto mi è capitato di ascoltare – hanno plaudito all’iniziativa. Le femministe no. Non apprezzano le modalità con cui la politica decide di occuparsi dell’immagine vittima-carnefice. Ma la cosa rischia di passare sotto silenzio.
Veniamo all’India dove, non in uno sperduto villaggio indiano di Barlampur (su “alfabeta2” numero 31, anno III si racconta di una coppia che aveva deciso di convivere, trascinata fuori di casa in piena notte, pestata a sangue, le teste rapate a zero, trascinata in giro, punita dalla comunità) ma a Nuova Delhi, un essere sessuato al femminile, una ragazza, una studentessa come noi, che aveva scelto di andare al cinema come noi, di camminare assieme a un uomo come noi, è stata violentata collettivamente ed è morta per le torture subìte con una sbarra di ferro.
Una inattesa ondata di proteste ha attraversato l’India. Grida di giubilo hanno accompagnato la condanna a morte dei quattro violentatori: Mukesh Singh, Akshay Thakur, Pawan Gupta e Vijay Sharma. Ma sono state realmente colpite le radici del male?
No, hanno risposto le femministe indiane. Quell’inedito movimento che si è messo a parlare. Le loro voci sono arrivate fino a noi, sui media italiani.
Cosa hanno detto queste voci? Che la condanna a morte non serve contro il “lassismo” della magistratura, delle forze dell’ordine nel perseguire i crimini sessuali; contro il peso delle “tradizioni”, il malinteso senso del decoro, dell’onore, della pubblica morale. Hanno detto le femministe che un altro è il lavoro da fare. Italia e India sono lontanissime.
Eppure, le femministe usano lo stesso vocabolario.

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