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Non è stato il maggiordomo

20 Luglio 2013
da Leggendaria n.100
di Bia Sarasini

Il primo sospettato è il marito, dicono i rituali polizieschi, nella realtà e nei romanzi di genere, quando la vittima è una donna. Gialli, noir, detective novel che siano. Curioso che in letteratura, anche popolare, questa radicata convinzione – che vede il sesso dell’omicida – letto nell’ottica della gelosia, o comunque della passione accecante, tra i principali moventi per un delitto, insieme ai classici denaro e potere, non abbia fatto cortocircuito, non sia diventato un elemento per analizzare, comprendere i fatti. Strano che quello che oggi viene chiamato femminicidio – oltre il delitto la pratica maschile, dentro e fuori il matrimonio, di picchiare, malmenare, violentare le donne – non entri, nelle narrazioni. Proprio dove la violenza, l’assassinio, è l’oggetto del racconto. Che insomma, i gialli, i thriller, che per lo più si alimentano dell’attrazione morbosa di cadaveri di donne, di solito giovani, belle e nude, non solo non riflettano sullo stato dei rapporti tra donne e uomini, ma ravvivino tutti i più consolidati stereotipi della cultura misogina. Non così strano, in effetti, se si pensa che parliamo di cultura, di immaginario. Per questo sono grata – no, non a Stieg Larsson, lui viene dopo. Sono grata a Stephen King.

«Adesso vedeva chiaro. Era stato troppo malleabile con loro. Mariti e padri avevano precise responsabilità. Papà-sa-sempre-quello-che-deve-fare. Loro non capivano. La cosa in sé non era un delitto, ma loro non volevano capire». È Jack Torrance, il protagonista di Shining, del 1977, poi diventato un film di Stanley Kubrick nel 1980. Prigioniero dell’Overlook Hotel, il mitico albergo vivente in cui sono racchiusi gli orrori, le violenze, le zone oscure della storia americana del Novecento, dà corpo alla più squisita essenza del dominio patriarcale: «Di regola lui non era un uomo rigido, però credeva nell’effetto del castigo. E se suo figlio, o sua moglie si erano opposti seriamente ai suoi voleri, alle cose che lui sapeva essere la soluzione migliore per loro, allora non era forse suo dovere…?» E più oltre, nello scambio con Jack Grady, il custode che incarna lo spirito assassino dell’Hotel (del paese, del patriarcato?) e che gli consegna l’ordine, il compito: «Un uomo che non sappia tenere a freno la sua famiglia, incontra scarsissimo credito presso il nostro direttore. Da un uomo che non sappia mettere le redini al collo di sua moglie e del figlio, non ci si può aspettare che controlli se stesso, e tanto meno che assuma una posizione di responsabilità in un’impresa di questa portata. Lui …».

Shining è il terzo romanzo di King, un autore poi molto prolifico. Lo scrittore ha trent’anni, come il suo personaggio. Il tema, la violenza di un uomo fallito, figlio a sua volta di un uomo violento, contro la moglie e il figlio che si salvano e lo eliminano, è chiaro e esplicito. Che non si tratti di un tema secondario lo mostra quasi per intero la sua opera successiva, costellata di figure di uomini rabbiosi in varie forme, in ogni caso contro le donne, anche se non mancano figure femminili violente, come l’indimenticabile protagonista di Misery non deve morire. E non vorrei qui discutere se King sia o no uno scrittore a pieno titolo, o se il suo horror fantastico ne diminuisca il meraviglioso talento. Non sarà da meno di Edgar Allan Poe, lo “scribacchino” che cita in Shining, dove aleggia la Morte Rossa. Della centralità non casuale delle violenze domestiche nella sua scrittura, testimoniano altri due testi. Il notissimo Dolores Claiborne, del 1993, e Rose Madder, del 1995. Entrambi sono scritti dal punto di vista di una donna, entrambi mostrano conoscenza e sensibilità particolari. Dolores Claibourne è il monologo, più volte rappresentato a teatro, di un’anziana colf del Maine – nel film è interpretata da Katy Bates – che racconta come e perché, per proteggere la figlia, con l’aiuto dell’eclisse di luna ha ucciso molto tempo prima il marito alcolizzato, inetto e violento. Rose Madder è la storia della liberazione di una donna dalla prigione in cui la rinchiude il marito violento, un poliziotto: «Tutti insieme furono quattordici anni d’inferno, senza che lei lo sapesse. Per la gran parte di quegli anni la sua esistenza trascorse in uno stordimento così profondo che era quasi morte e in più di un’occasione si sentì quasi certa che la sua vita non stesse veramente accadendo, che presto o tardi si sarebbe svegliata, per sbadigliare e sgranchirsi con la grazia di un’eroina di un disegno animato di Walt Disney. Questa idea cominciò ad affiorarle sempre più spesso dopo che lui la picchiava così selvaggiamente da costringerla a letto qualche tempo per riprendersi». King è uno scrittore sapiente, per raccontare del conflitto tra donne e uomini mette in gioco le risorse del mito. E se in Dolores Claibourne l’eclisse del luglio 1963 è sufficiente a evocare la potenza della luna nera, in Rose Madder magie e mito appaiono in modo esplicito. Per liberarsi di un uomo, una donna ha bisogno di tutta la sua forza, prima di tutto quella simbolica, che si gioca nei miti, nei sogni, nelle tradizioni che vanno ridisegnati. Come in un quadro. Un gioco serissimo, perché anche la forza e la rabbia di una donna, di una vittima che non è più tale, necessitano di una misura.

Sono grata a Stephen King, dicevo. Per avere considerato che la rabbia, il furore degli uomini contro le donne in quanto tali – è degno di essere narrato. Fa parte della scena, non è un ingrediente inutile, da eliminare dalla scena del delitto. La stessa mossa di Stieg Larsson, che l’ha inserito nel celebre titolo: Uomini che odiano le donne. Una chiave che ha aperto molte porte, ha illuminato molte zone oscure, ha capovolto tante interpretazioni. Eccolo, il movente nascosto. Anche Lisbeth Salander, la protagonista della serie Millenium, si muove in questa luce. E se Larsson non ha le capacità, gli strumenti narrativi di Stephen King, Lisbeth non è solo una figura funzionale, necessaria a un racconto che mette in scena la vendetta femminile. Lisbeth è una personaggia che ha qualcosa del mito, qualcosa che la rende viva, potente. Minuta, fragile, quasi disabile, eppure incredibilmente resistente più che forte, acuta, mai arresa.

Ma la vendicatrice, come si sa, è ormai una figura della cultura pop. Dal cinema ai fumetti. Figure rovesciate, nella maggior parte dei casi. Spesso eleganti, e stranianti: come Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino. Ora anche il noir italiano si adegua. È appena uscito il primo di una serie di quattro volumi, Le Vendicatrici, che Massimo Carlotto, uno degli autori più noti del genere, ha scritto con Massimo Videtti: Quattro donne, a Roma, ognuna con torti subiti da uomini da vendicare. Giovanna Covi, in LetterateMagazine n.53, esprime una forte perplessità «di fronte all’entusiasmo con cui Fabrizio Ravelli annuncia (La Repubblica 8/5) l’uscita del ciclo Le Vendicatrici di Carlotto e Videtta, quale sfida agli uomini che odiano le donne. La tragedia dei femminicidi in quotidiana ascesa richiede sicuramente interventi culturali insieme a quelli sociali e giuridici, ma temo che la “sfida” delle donne immaginata dagli autori porti una mera rappresentazione sensazionale di questa piaga sociale più che indicare come uscirne».

A me sembra  un’operazione editoriale. Nel libro non c’è nulla che metta in discussione la violenza, né degli uomini né delle donne. Il racconto è gelido, le descrizioni puntigliosamente sadiche, le amiche per nulla convincenti né tantomeno simpatiche, la descrizione del sistema dello strozzinaggio romano appena decorosa. Ma forse valgono le intenzioni. Forse l’editoria italiana ha capito che c’è un mercato. Peccato che non ci sia altro.

 

Stepehen King:

Shining, Traduzione Adriana Dell’Orto, Bompiani Milano 2001, 429 pagine 9,90 euro

Dolores Claiborne, Traduzione di Tullio Doibner, Sperling&Kupfer, Milano 2010

Rose Madder,Traduzione di Tullio Doibner, Sperling&Kupfer, Milano 1996

Massimo Carlotto, Marco Videtta, Le Vendicatrici. Ksenia, Einaudi Stile Libero Torino 2013-05-31 320 pagine 15 euro

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