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Microcritiche / La sentenza di Maya

10 Febbraio 2013
di Alberto Leiss

Zero Dark Thirty, film di Kathryn Bigelow, con Jessica Chastain –

Ci avevano fatto credere che i Maya avessero profetizzato la fine del mondo, invece è stata la sentenza dell’agente della Cia Maya, in Zero Dark Thirty, ad annunciarci in modo definitivo la fine di un mondo.  La sentenza riguarda la condanna a morte di Bin Laden, che Maya assume con perfezionismo e ostinazione femminili come un compito assoluto e personale. Il mondo che non c’è più riguarda l’era in cui la violenza e la guerra, e quindi la politica, erano un territorio simbolico esclusivamente maschile.

Si è detto che il film giustifica l’uso della tortura e degli omicidi mirati nella lotta americana contro il terrorismo. Ma la speculare reazione critica contro Bigelow di democratici e repubblicani dell’establishment USA dovrebbe quantomeno insospettire.

Il film, ai miei occhi e ai miei sentimenti, dice con estremo rigore realistico come stanno le cose. Certo induce a simpatizzare con la protagonista. Ma non assolve nessuna delle pratiche violente descritte. Ci ricorda senza enfasi ma senza scampo che siamo tutti, ci piaccia o meno, immersi in una guerra asimmetrica spietata. Una guerra carica di interrogativi etici in parte nuovi, che restano tutti aperti.

Fino a che punto si può infliggere il male a un prigioniero, per prevenire attentati contro civili innocenti e per distruggere la rete dei terroristi? E’ accettabile – come ordina urlando un funzionario della nuova amministrazione Obama – la redazione di liste nominative di nemici da uccidere senza esitazione, mettendo nel conto le vittime dei “danni collaterali”? E utilizzando sempre di più droni senza pilota?

La storia dei dieci anni passati da Maya sulle tracce di Bin Laden dice anche che questa guerra non si vince con le invasioni e gli eserciti in campo (come insegnano Afghanistan e Iraq), ma con l’intelligence, le informazioni e lo studio del nemico.

Maya sostiene in polemica con una collega che gli uomini di Al Queda sono incorruttibili. Toccherà a lei riconoscere il volto di Bin Laden ucciso. Questo evoca forse la necessità di riconoscere anche le ragioni del nemico.

Maya vince la sua battaglia contro il capo di Al Queda, e quelle contro superiori maschi generalmente più sciocchi di lei. La sua “tostaggine” ha entusiasmato più di un commento femminile. Le donne negli USA intanto sono ammesse all’onore della prima linea. Ma è una vittoria, quando guerra e onore da tempo non possono andare più d’accordo?

Alla fine della storia Maya rimane sola. Lo è sempre stata. Sola in un grande aereo militare al suo servizio. E non sa rispondere alla domanda che le viene rivolta: dove vuole andare? Il film finisce sul suo volto muto, in lacrime.

Penso che la domanda sia rivolta a tutti noi: dove vogliamo andare? Ora che l’arcinemico è morto, ma la guerra continua, che fare in questo mondo nuovo e ancora sconosciuto?

Bigelow liquida – en passant – anche il dilemma della lunga e un po’ noiosa disputa alla moda sul “nuovo realismo”. I fatti sono innegabili, ma ciò che conta per le nostre vite è quando li vediamo e come li interpretiamo.

 

 

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