Anima / Corpo

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Nella casa che mi ha fatto Laura

15 Luglio 2012

Laura Gallucci ci ha improvvisamente lasciato ieri, sabato 14 luglio 2012. Pubblichiamo poche righe scritte da Franca Chiaromonte, e ripubblichiamo tre scritti di Laura: due articoli per DeA su due film e sul MAXXI di Zhaa Hadid, e il testo sulla cura uscito nell’inserto di Leggendaria dedicato al documento “La cura del vivere”, scritto dal gruppo delle femministe del mercoledì, di cui Laura faceva parte.

Ridere, andare in macchina, al cinema, essere insieme a Pasqua, curarmi nelle malattie (molte), costruirmi la casa, fatta da lei dai pavimenti al soffitto, abitarci insieme per via del mio piede e della sua gamba rotta – passare insieme le vacanze, amare insieme il mare, mare, mare, le canzoni (Trainspotting), mangiare insieme, rovesciare (lei) la borsa per trovare le chiavi, l’accendino, la patente, tagliarci i capelli dallo stesso parrucchiere, discutere di politica, scambiarci gli stessi amici, amiche, etc.
Ora che Laura Gallucci non c’è più, come faccio/amo? Non e’ giusto.
Franca Chiaromonte

Microcritiche/ La crisi del maschio: tragica e comica
9 marzo 2012
di Laura Gallucci

Due film: “Cesare deve morire”, “Posti in piedi in Paradiso”

I due film: l’uno dei fratelli Taviani, l’altro di Verdone, sono ovviamente diversissimi quanto a qualità, spessore, sceneggiatura, contesto , ma trattano entrambi di comunità separatiste maschili. Il primo è la rappresentazione del “Giulio Cesare” di Shakespeare fatta nel carcere di Rebibbia e la drammaticità del testo acquista un tono speciale proprio a causa degli attori, tutti  detenuti della sezione speciale: qualcuno omicida o pluriomicida, qualcuno condannato a “fine pena mai”.

Il potere, la dittatura del potere, la libertà, l’omicidio come mezzo, tutti temi interni al “Giulio Cesare”, assumono un tono diverso quando vengono trattati da chi sta pagando proprio per la ferocia della lotta. Gli attori sono uomini sconfitti che attraverso il testo riescono a mettere in parola i propri tormenti. Potrebbe essere un inizio di autocoscienza partendo da Shakespeare.

Altra scena nel film di Verdone: uomini rimasti soli che hanno perso denaro e autorità , si barcamenano nella ricerca di una sopravvivenza ai limiti della dignità. E’ la rappresentazione anche comica del maschile nel post-patriarcato in cui viene messa in scena tutta la confusione, la debolezza e la fragilità dei soggetti. Forse una nuova elaborazione potrà nascere solo se alla rappresentazione farà seguito la coscienza dei limiti e la presa in carico della fragilità. Sono due film da vedere e il secondo è anche divertente.

L’ immagine del cambiamento di Zhaa Hadid
10 maggio 2010
di Laura Gallucci

Non voglio qui descrivere l’opera (il MAXXI) né parlare dell’autrice (Zhaa Adid) di cui sicuramente avrete letto su tutti i giornali a proposito dell’inaugurazione temporanea del museo (hanno promesso l’apertura ufficiale per il 30 maggio), ma leggendo l’articolo di Lia Cigarini sull’ultimo numero di “Via Dogana“, mi sono tornate alla mente le immagini e le sensazioni del museo, quando parla del “ cambiare l’immagine del cambiamento “.
Ecco per me un esempio di quel “ cambiamento”. Lo spazio realizzato è totalmente nuovo: non solo perché nella nostra percezione la perdita dei riferimenti delle linee verticali e orizzontali produce uno spaesamento, ma anche perché rimette in discussione l’idea stessa di luogo chiuso, l’idea di contenitore, di involucro e di spazio statico. L’abbandono degli assi cartesiani era già avvenuta con altri spazi e altri autori. 
Penso a Gehry , a Liebeskind e anche alla caserma dei pompieri di Vitra di Zhaa Hadid stessa, ma qui interagisce più intensamente con il corpo, non si tratta infatti solo di immagini che si stampano sulla nostra retina, come in una TAC, quando si procede, ma coinvolge il corpo che si sposta nello spazio, man mano che si va avanti ci si sente più leggeri o più pesanti, più veloci o più lenti grazie alla combinazione delle varie inclinazioni del suolo e delle pareti, del soffitto, della luce naturale o del cielo. Tutto ciò si percepisce in maniera fluida.
La fluidità è la caratteristica principale degli spazi. Non si tratta più di un contenitore chiuso, di un riparo, come è l’idea archetipica dello spazio interno, ma qui le improvvise aperture verso l’esterno e verso il cielo lo rendono inusuale. Il contenitore è infatti realizzato per contenere opere di arte contemporanea : video, immagini, performances, che difficilmente si adatterebbero dentro delle scatole. 
Che cosa inoltre mi colpisce in questa opera? 
I disegni iniziali; l’autrice infatti inizia ogni progetto realizzando quadri con mille colori, immagini astratte e personalissime che saranno poi le linee guida della progettazione; affronta lo spazio vuoto esprimendo sensazioni, emozioni senza alcun riferimento costruttivo: prima indaga su di sé, lavora per dar luogo alle immagini che le suggerisce il tema, poi seleziona, sfronda, modifica, realizza le compatibilità con le funzioni, le cerca, le trova, ma aggiungendo qualche cosa in più che viene dal partire da se.
Non so quanto l’autrice sia consapevole del suo agire” politico,” ma sicuramente con questo metodo dà corpo al cambiamento e realizza immagini nuove che entreranno a far parte del nostro patrimonio di percezioni e sensazioni.

Accogliere l’altro, inventare una casa
settembre 2011
di Laura Gallucci

Nel mio lavoro di architetta ritengo che la parte dedicata alla “cura” rappresenti una percentuale molto elevata all’interno dell’intero processo che porta dalla nascita delle idee alla realizzazione di un progetto. È difficile stabilirne la percentuale perché si tratta da una parte di una serie di azioni tese alla cura, dall’altra di un atteggiamento e di una modalità di stabilire relazioni che attraversa tutto il modo di operare.

Gran parte del mio lavoro si svolge nel campo delle ristrutturazioni e realizzazioni di abitazioni. I miei clienti sono in genere privati che arrivano da me con un elenco di bisogni ed esigenze soprattutto pratiche; la sfida maggiore è nell’andare oltre per rendere più ricco e complesso lo spazio da realizzare.

Quando progetto una casa seguo tre passaggi che in genere si intrecciano, ma che semplifico in fasi: la prima è quella in cui esploro il nuovo spazio, cerco di capirne la storia, le caratteristiche peculiari, le potenzialità, le luci, il contesto, la vista, i suoni, i rumori, gli odori; la seconda è quella in cui immagino di dover abitare io quello spazio e cerco di capire cosa voglio vedere, quali suoni voglio ascoltare o cancellare, quali luci, quali scorci, quali atmosfere valorizzare…; la terza è quella in cui cerco di interrogare la/il committente, per capirne, oltre le esigenze che mi esplicita, i ricordi, le fantasie, i desideri, le immagini di riferimento, i movimenti preferiti. In sostanza parto da me per poter poi accogliere, capire l’altro, aiutarlo a svelare i propri desideri e le parti nascoste; devo immedesimarmi nella parte di chi abiterà una casa, che non

solo rappresenterà il suo habitat ma anche la propria identità, per poter dar luogo a uno spazio che non derivi da una sommatoria di intenti, ma nasca inaspettato dalla contaminazione delle reciproche visioni.

Dalla interazione di questi elementi e dalla qualità della relazione che viene a crearsi nascono le idee e la forma del progetto. Tanto più questa relazione si realizza, tanto più il progetto ne acquista in qualità. In questo caso la cura della relazione non è solo funzionale a un armonico susseguirsi del lavoro, ma produce creatività proprio nell’assemblare le esperienze, i ricordi, le sensazioni, le citazioni, nel connettere percezioni e storie diverse. Accostare elementi dissimili, trovando ogni volta una combinazione nuova, intrecciare gusti e stili di vita richiede un processo creativo costante e prolungato nel tempo oltre che elasticità mentale.

In seguito, nella fase realizzativa di un progetto, è per me essenziale trasmettere a operai e artigiani il senso del loro agire, coordinarli e valorizzarli in modo da costituire una squadra che lavori in modo armonico al conseguimento di un risultato. Anche in questo caso non si può seguire il rigido protocollo degli “ordini di servizio”. Prevenire gli errori e i fraintendimenti per evitare i conflitti richiede una presenza continua e la ricerca costante necessari a stabilire, oltre che rapporti di fiducia, un linguaggio comune.

Non penso di fare qualcosa di straordinario o di diverso da quello che fa ogni professionista o chiunque lavori con serietà, ma credo di dover sottolineare il valore aggiunto che deriva dalla “pratica delle relazioni” acquisita nella politica delle donne ed evidenziare che l’aspetto nascosto della cura è quello della fantasia e della creatività oltre che della capacità di organizzazione di tutti quegli aspetti essenziali che rendono accettabile la vita.

La cura è una modalità di relazione, un valore aggiunto nello svolgimento del lavoro. Chiamo “cura” quel di più che accompagna la sequenza delle azioni tese alla realizzazione di un progetto. Il di più: è il coinvolgimento emotivo che avviene quando si mobilitano i sentimenti, quando si riesce a percepire l’altro da sé perché si è percorso prima il partire da sé. La cura si realizza quando si crea questo gioco di rimandi.

Ci può essere un lato debole in questa modalità: nella partecipazione delle emozioni all’interno del lavoro c’è il rischio di personalizzare successi e insuccessi, di rendersi fragili di fonte ai contrasti, alle delusioni, di essere troppo suscettibili alle critiche. Bisogna avere la consapevolezza che ci si muove su di un crinale: dove ogni eccesso rischia di essere giudicato come poco professionale e dove si rischia di dare al lavoro una valenza troppo importante rispetto alla propria quotidianità, di mescolare lavoro e vita, c’è il rischio di avere paura dei conflitti, perché non si riesce a circoscriverli, e che quindi non diventino più occasione di crescita, ma di abbandoni.

Carol Gilligan racconta come reagiscono in modo differente bambini e bambine se scoppia una lite durante un gioco: i maschi litigano, ma continuano a giocare, le femmine litigano e tornano a casa. A volte un eccesso di cura può nascondere la paura di affrontare i conflitti.

Lavorare con cura significa quindi fare i conti con le proprie fragilità e onnipotenze e spesso navigare a vista; ma proprio questo mettersi su di un crinale assumendone i rischi, con la consapevolezza delle proprie debolezze è un punto di forza che rende più interessante un lavoro, gli restituisce importanza, produce scarti, e spesso dà luogo all’inaspettato, a orizzonti più vasti e a risultati imprevisti.

 

 

 

 

 

 

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