Damien Hirst alla Tate Modern di Londra
Le opere di Damien Hirst (nato a Bristol nel ’65, tra gli artisti più pagati del mondo) sono in mostra a Londra, alla Tate Modern fino al 24 giugno. Si comincia – o si finisce –con “For the Love of God”: teschio (femminile) tempestato di diamanti (8.600). Poliziotti stanno a guardia del tesoro. Se esci dalla sala buia dopo poco tempo, ci rimangono male. Il tempo è denaro; in questo caso, non fermarsi a contemplare i bagliori del cranio genere Topkapi, significa che dilapidi il prezzo del biglietto.
In effetti, le opere di Hirst fanno l’apologia dell’economia di mercato. Perfette per la piazza finanziaria di Londra: un milione di impiegati alla City; nuova élite sociale che ha invaso a colpi di speculazione immobiliare il West End. E rilanciato i borroughs per anni dimenticati da Dio e dagli uomini.
In questa piazza finanziaria, non sfigurano i bucanieri senza tetto né legge del collezionismo che confezionano luoghi di sacralità ludica come la galleria The White Cube.
Per questo Hirst è l’artista perfetto di una certa Londra, capace di mettere in fila centinaia di pillole monocromatiche, migliaia di mozziconi di sigaretta, la testa di un vitello su cui ronzano le mosche, la pecora sezionata, il pescecane che flotta sotto vetro nella formaldeide, le mosche bruciate dalla corrente elettrica, l’impasto nero di insetti, le larve che pendono dalle pareti e di affidargli un messaggio del nulla.
Non è questione di ideologia. O di interpretazione della realtà. Si tratta di segni (successe anche con il cordone ombelicale del bambino nella pubblicità di Benetton-Toscani) destinati a rompere il rapporto di solidarietà naturale tra corpo e ambiente.
Così Hirst, simile a un trader dell’arte, mette in scena la rottura di legami e della solidarietà reciproca. D’altronde, nell’arte gemellata con l’economia di mercato, non c’è mai in questione la morale. Strano perché sembra che persino qualche banchiere cominci a avere dei ripensamenti.