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Amore, violenza e le promesse del ’68

2 Aprile 2012
di Renate Siebert

 Vorrei parlare di questo testo (Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà Bollati Boringhieri, Torino 2011) a partire da una annotazione sull’autrice: la passione di Lea Melandri per le scritture di esperienza, la sua testardaggine nel ritornare sempre e ancora sulla dimensione esistenziale dove s’intrecciano corpo, pensieri ed emozioni. Sento vicinanza con lei innanzitutto nell’amore per il dettaglio, nell’insistenza sulla concretezza e, di conseguenza, nella diffidenza per l’ideologia. Ci lega una comune esperienza che ha segnato le nostre vite, quella dei gruppi di autocoscienza negli anni ’70 a Milano, un’esperienza che ci ha insegnato la voglia di tenere insieme ciò che sperimentiamo personalmente – la singola storia individuale – da una parte, e la teoria, l’astrazione, l’utopia – la dimensione collettiva – dall’altra. Rispetto e amore per le singole storie, insieme allo stile alto sul piano teorico, hanno contraddistinto ad esempio la rivista “Lapis” alla quale Lea ha dedicato anni della sua vita.

 Per presentare il testo, necessariamente, devo essere sintetica. Perciò mi concentrerò su tre temi centrali – che, tuttavia, non rappresentano tutta la ricchezza del volume:
1.   Corpo e polis
2.   L’annodamento tra amore e odio (Il fattore molesto della civiltà) 3.   L’eredità del ‘68

1. Corpo e polis

Nel Secondo Sesso Simone de Beauvoir – interrogando le varie discipline della conoscenza – ricostruisce la secolare esclusione del corpo femminile dalla polis mediante la costruzione della donna come “Altro assoluto”. Un meccanismo di inferiorizzazione che si basa sulla naturalizzazione. Un’analisi, allora come adesso, estremamente attuale, anche perché il sessismo ha una parentela stretta con il razzismo, entrambi costruzioni ideologiche che sono radicate nella naturalizzazione di circostanze e relazioni che, invece, sono sociali e hanno radici storiche. Il meccanismo della naturalizzazione consente a chi detiene il potere di declinare e giustificare le disuguaglianze come immutabili, superiorità e inferiorità diventano inamovibili, per definizione esentate da riflessioni critiche. Nella sua analisi del rapporto tra corpo e polis Lea Melandri si sofferma in particolare sull’analogia tra, da una parte, il secolare processo (in Occidente) dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo e, dall’altra, del dominio maschile sul corpo femminile – una dinamica di dominio che tende ad essere sempre di più un rimosso che si addensa come una nube scura sulle nostre teste. (Lo avvertivano Horkheimer e Adorno nella loro Dialettica dell’Illuminismo, scritto sul finire del nazismo e della 2. Guerra mondiale). La riduzione della sessualità femminile a procreatrice, sottolinea Lea, è insieme espressione di questo processo di naturalizzazione e misura colma che ha fatto esplodere le contraddizioni di tale situazione storica dall’interno. Questo era eclatante nelle contestazioni del ’68 – ’70 ed è diventato tema di conflitto – ma in modo totalmente diverso – oggi. Se l’antiautoritarismo e il femminismo degli anni ’70 contrastavano pratiche e pensiero anti-corporeo attraverso un critico e autocritico partire da sé, la rivalsa del corpo oggi consiste nell’apparizione sulla scena pubblica di tutto ciò che era stato rinchiuso nel privato. Sul piano direttamente istituzionale, politico e giuridico, il corpo, oggi, entra nella polis, innanzitutto, attraverso le bio-politiche. Quello che nella fase delle lotte degli anni ‘60/‘70 era al centro, la denuncia della disparità di potere fra i sessi, oggi è nuovamente occultato. La decostruzione, allora, dell’individuo/cittadino formalmente neutro, ma sostanzialmente maschile, che stava alla base dei nuovi approcci alle questioni democrazia, uguaglianza, cittadinanza e libertà, oggi ha ceduto il posto ad una presunta apertura dello spazio pubblico ai corpi femminili: una politica sul modello dell’intrattenimento con i corpi femminili in primo piano, esposti in modo spettacolare e voyeuristico. Più che una politica nuova si è affermata una diffusa anti-politica.

2. L’annodamento tra amore e odio

L’amore /passione veicola una componente claustrofilica, nell’amore rimane una traccia della nostalgia per la quiete intrauterina. L’amore coltiva il sogno di fondere due in uno e la “ricerca ossessiva della coppia”, come si esprime l’autrice, ne reca traccia. Lea Melandri parte da questi presupposti per arrivare a quello che per lei rimane il nodo centrale, vale a dire la nascita, il passaggio dalla fusionalità alla separazione: il corpo femminile che da uno si scinde in due, dando luogo ad un’esperienza, subito rimossa, che si sedimenta in modi diversi negli esseri umani di sesso diverso. Tale “memoria” rimossa rimane centrale nella vita di ognuno/a: il paradiso a cui si mira è lo stesso da cui si è partiti. Si tratta di fantasmi, ovviamente, che, tuttavia, vengono nel corso della vita proiettati su persone concrete, producendo relazioni mutilate che risentono di meccanismi coattivi di ripetizione. Così, nella relazione tra uomo e donna, ancestralmente, tende a riprodursi un doppio movimento: l’uomo ritorna al corpo femminile con un misto di angoscia e di morte (legato all’espulsione da quel corpo vissuto come liberatorio, all’atto di nascita), e con spinte profonde verso il possesso di quel corpo nel presente al fine di esorcizzare la memoria inconscia di esserne stato posseduto. Il processo di individuazione e tutte le relazioni sociali che l’individuo intesse sono contaminati da questa preistoria.

Dal corpo materno l’uomo si emancipa allontanandosi e, contemporaneamente, ingessando e incatenando la donna alla sua presunta vicinanza alla natura. L’uomo diventa adulto contrapponendosi al luogo delle sue origini, al corpo femminile materno, come ad un “Altro” immobile, naturale, che viene identificato con il paradiso dell’infanzia.

Il sogno d’amore – sogno di una ricomposizione armoniosa di elementi fra loro in guerra – rappresenta quindi la difesa più forte, l’impedimento centrale della possibilità di ricondurre l’individualità del maschio e della femmina entro i loro limiti reali. La natura alienata dell’esistenza femminile, che è frutto di una proiezione maschile (ciò che Simone de Beauvoir chiamava “l’eterno femminino”), tuttavia, incatena anche l’uomo in modo speculare ad una soggettività sbilanciata e deformata.

Occorre ripartire da Freud, che individuava la realizzazione del sogno dell’unione degli opposti nella relazione madre-figlio maschio. Quello che non metteva in conto era il prezzo di tale armonia, vale a dire la sottomissione della donna, della sua sessualità, del suo corpo, all’uomo: il disagio della civiltà è un disagio sessuato. L’aggressività necessaria per conservare l’unità ideale rappresenta la dimensione ombra dell’amore.

La nostalgia dell’originaria unità a due, oltre ad adombrare le relazioni d’amore fra le persone, tende ad investire le relazioni sociali generando tra l’altro movimenti politici nostalgici che si richiamano a coesioni organiche e sentimenti nazionalistici. Il sogno di unità mistiche, in sostanza, evoca la fusionalità del corpo materno.

Luogo sociale privilegiato del conflitto e dell’espressione dell’aggressività è la famiglia, fortemente coinvolta nei cambiamenti legati alla crescente autonomia delle donne nelle nostre società attuali.

I corpi delle donne, oggi, possono considerarsi corpi liberati, o corpi prostituiti ?, si chiede Lea (e possiamo rimandare la domanda alla discussione). Fatto sta che il corpo femminile oggi viene rappresentato, da una parte, come corpo erotico, immagine glamour dei media e, dall’altra parte, come corpo materno, valorizzato per le sue doti femminili nello sfruttamento nel mercato del lavoro. Il corpo, non più rimosso, ma pubblicamente esposto e commercializzato. Più che liberato, diffusamente prostituzionalizzato. “Schiave radiose”, come scrive Lea.

Domanda: quanto le donne sono tentate, nell’ambito privato, di prendersi la rivincita, un potere proprio, usando il dominio sui figli?   (Tillion, Djebar).

“L’astuzia dell’impotenza femminile” (come ho chiamato quest’atteggiamento in una ricerca di tanti anni fa) è il contrario dell’affrontare un conflitto – e oggi, come giustamente sottolinea Lea, l’assenza di conflittualità è ciò che fa problema. Questa assenza di conflittualità appare piuttosto un segno di subalternità in un contesto prostituzionale allargato. Scrive Lea: “Il potere che viene dal rendersi indispensabile all’altro è tutt’ora, per la donna, il più forte contrappeso alla sua mancata realizzazione come individuo, cittadina a tutti gli effetti”.

I corpi degli uomini: Osserviamo una tendenza generale: mentre il potere dei padri tende a declinare, la violenza maschile tende ad aumentare. Mentre una volta la virilità era ben ancorata nelle strutture sociali e la violenza si confondeva con le leggi, ora le donne si sono scostate dal posto in cui erano state messe e, di conseguenza, anche la costellazione maschile ha perso i suoi contorni ben definiti. Rimane evidente l’ambiguità maschile verso il corpo femminile: il corpo materno rappresenta la sede dell’originale fusionalità – il sogno d’amore – ma rappresenta anche il corpo che ha tenuto l’uomo in sua balia nel momento della maggiore dipendenza e inermità. Confinando la donna nel ruolo della madre, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino. La fuga dal femminile, scrive Lea, è anche fuga dai bisogni infantili. Una componente della spaventosa violenza maschile, sicuramente, si può spiegare col fatto che gli uomini hanno armato la loro debolezza pur di non vederla.

In sintesi, l’analisi critica di Lea Melandri mira a mettere al centro l’ambivalenza dei sentimenti già sempre presente nelle relazioni più intime. Tale approccio è molto importante perché, solitamente, le riflessioni sull’accresciuta violenza maschile (stupri, uccisioni, delitti in famiglia) tendono ad attribuire la violenza molesta più facilmente alla società e a fattori esterni alla sfera intima.

 3. L’eredità del ‘68

 I movimenti antiautoritari del ’68 e, in termini ancora più radicali, il femminismo dell’autocoscienza degli anni ’70 hanno significato una decisiva rottura con questo modo di percepire. L’analisi del sessismo compiuto in quegli anni, diversamente dall’emancipazionismo della prima metà del Novecento, ha spostato l’attenzione dalla sfera pubblica alla vita privata e personale. Una torsione importante dall’esterno verso l’interno, a partire da un lavoro di presa di coscienza del proprio corpo sessuato. Veniva tematizzato l’amore con tutte le sue ambivalenze. L’autocoscienza svelava che la vicinanza al corpo – nelle attività quotidiane come nelle forme della socializzazione al femminile – sembri predisporre le donne ad un accesso privilegiato ai territori ostici della memoria arcaica che ci possiede. Attraverso il ricorso alla propria esperienza come base per ridisegnare la propria identità e soggettività, molti miti e stereotipi hanno cominciato a vacillare. Ma a questa fase rivoluzionaria, potremmo dire, è seguita una singolare forma di restaurazione, come da allora Lea non ha smesso di denunciare: parte del movimento si è lasciato tentare dal desiderio di rovesciare le parti: non più ordine simbolico maschile, patriarcato, identificazione esclusiva dell’uomo con la cultura e con la cittadinanza, ma “ordine simbolico della madre”, la pretesa di una superiorità, una posizione di priorità della donna, del genere femminile, perché identificato con l’essere della madre. Ma la questione dei sessi non deve rimanere una questione di dominio, una contesa interminabile sul potere generativo. Per uscire dal cerchio, dal circolo vizioso della complementarietà, occorre guardare a maschi e femmine, innanzitutto, come a degli individui.

 Per concludere vorrei brevemente sottolineare che nella lettura degli andirivieni dei movimenti dal ‘68 in poi che Lea fornisce in questo libro, la fondamentale rottura portata dalle componenti antiautoritarie (o, come dice Lea: non autoritarie) è finalmente messa in rilievo. Dico ‘finalmente’ perché, purtroppo, nel dibattito pubblico di questi anni in Italia è prevalsa spesso un’immagine del ’68 deformata, il più delle volte diffamatoria. Ma anche quando la rappresentazione non era tale, vale a dire in generale da parte di commentatori della sinistra, la componente non autoritaria di quei movimenti, indubbiamente minoritaria, viene volentieri taciuta. A maggior ragione e giustamente, secondo me, il suggerimento di Lea Melandri di ritornare a queste esperienze basate sull’aspirazione ad una “libertà di essere”, ad una “libertà che parte da dentro” appare molto prezioso. Si tratta di un passaggio molto importante, vero antidoto all’imperante e onnivoro trionfo delle ideologie e delle battaglie ideologiche, passaggio dalla comprensione e denuncia dell’illibertà fuori da noi, nel sociale – a quella dentro di noi. Senza, ovviamente, sminuire l’importanza delle prime. In tal senso il libro di Lea è un “elogio del conflitto”, inteso come un ritornare, un ripartire dall’esperienza antiautoritaria e antisessista del ’68: corpo, individuo e legame sociale non sono scindibili. Occorre lottare contro la violenza simbolica – uno dei principali ostacoli alla liberazione delle donne – che consiste nel fatto che la vittima interiorizza, fa suoi i meccanismi e i risultati della propria inferiorizzazione. Sta a noi tutte e tutti di invertire certe tendenze maggioritarie. Condivido ciò che scrive Lea: “Il ritorno di ciò che è stato escluso – i corpi, la vita dei singoli nella sua complessità e interezza, passioni, fantasmi contraddittori – può tradursi in una inevitabile barbarie, ma può anche riaprire la strada al desiderio e al conflitto, alla possibilità di ridefinire su basi meno astratte il legame sociale”.

Grazie Lea, per la tua tenacia e la tua fedeltà alle promesse di libertà che animavano le battaglie non autoritarie e femministe del nostro ’68 e dintorni!

 

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