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Alla ricerca dell’autorità (maschile) perduta

22 Aprile 2012
di Alberto Leiss

E’ in libreria il volume “Silenzi. Non detti, reticenze e assenze di (tra) uomini e donne”, a cura di Barbara Mapelli e Stefano Ciccone, edito da Ediesse.  Vi si possono leggere interventi di Mapelli e Ciccone, Elisabetta Cibelli, Marco Deriu, Annalisa Marinelli, Eleonora Cirant, Salvatore Deiana, Andrea Bagni, Chiara Martucci, Iuliana Militaru,  Isabella Peretti, Sveva Magaraggia e Harry Blatterer, Lea Melandri. Molti e diversi i temi affrontati: dai rapporti intergenerazionali difficili al rancore maschile, alle esperienze di cura di donne e uomini,  ai rapporti con il potere, il lavoro, le relazioni sentimentali. Pubblichiamo qui l’intervento di Alberto Leiss sul tema della crisi dell’autorità maschile e paterna (affrontato anche nello scritto di Marco Deriu).

Da molto tempo si svolgono seminari annuali tra uomini e donne per iniziativa dell’associazione “Identità e differenza”, prima a Asolo e recentemente a Torreglia. Questa associazione è un luogo misto, nel quale gli uomini hanno però sempre riconosciuto una grande – direi superiore – autorità politica alle donne e alla loro pratica politica ispirata dal femminismo della differenza. E’ un appuntamento, sostenuto dal desiderio e dall’energia di Adriana Sbrogiò, al quale sono molto affezionato, anche perché è stato il luogo nel quale sono cresciute, soprattutto negli ultimi anni, alcune relazioni tra uomini che hanno portato a una presa di parola pubblica in forme più evidenti. Da parte di uomini che cercano di riflettere in modo più aperto e critico sulla propria collocazione in un mondo in cui la libertà delle donne ha messo sottosopra l’ordine tradizionale.
Parte infatti da un discussione a Asolo, sulla violenza maschile, la stesura di un testo nell’autunno 2006 – “La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini” – scritto da alcuni (1) e poi girato in rete e sui media, e sottoscritto da qualche migliaio di altri uomini.  Quella analisi ha funzionato un po’ come un catalizzatore: diversi gruppi maschili e singoli uomini vi si sono riconosciuti. Ha preso forma una rete di relazioni che – tra discussioni appassionate e non semplici – ha dato luogo anche alla scelta di costituire una associazione, “maschile plurale”, che ha preso il nome da alcuni gruppi informali impegnati già da diversi anni, e ha avviato una più sistematica ricerca, pratica e teorica, sulla condizione maschile in un epoca in cui – come è stato affermato in un testo del femminismo italiano del 1996 (2) – il patriarcato ha perso il credito delle donne.Ho accennato a questa mia esperienza perché è al suo interno che è maturata anche l’idea di affrontare di petto – per così dire – nell’ultimo seminario tenuto a Torreglia nel maggio del 2011, il tema della “crisi dell’autorità maschile e paterna”.  Naturalmente sul tema della “assenza” e della “ricerca” del padre esiste una letteratura sconfinata che risale indietro lungo il secolo scorso: la questione si è però riaccesa nel dibattito pubblico proprio nei mesi precedenti l’incontro di Torreglia, intorno a alcuni fatti.  Le discussioni sui comportamenti sessuali di Silvio Berlusconi – che hanno aperto un interrogativo più generale su come il “maschio italiano” sta vivendo in questa fase storica la propria virilità (3) – l’analisi del rapporto Censis del 2010, che ha evocato l’”evaporazione del padre” di lacaniana memoria nel descrivere una società nazionale afflitta dall’assenza della “legge” e del “desiderio”. Una condizione in cui la “caduta dei desideri”, appunto, e la mancanza di una tensione creatrice tra desiderio e i valori della norma – che dovrebbe essere incarnata dalla figura paterna, come insegna la psicanalisi – porta “al primato del godimento e dell’edonismo di massa, alla serialità dei comportamenti, alla rassegnazione per la loro eterodirezione, al presentismo euforico, al rifiuto del tempo lungo e dell’accumulazione, all’eccessivo peso del mondo esterno rispetto alla coltivazione dei mondi interni. L’individualismo atomizzato cresce e si corrompe in un pericoloso vuoto sociale”(4).
Un impianto analitico – come poi è emerso in un confronto pubblico aperto sul “manifesto” da Ida Dominijanni (5)– che in buona misura va ricondotto alle elaborazioni di Massimo Recalcati (6), psicanalista lacaniano che ha prontamente rilanciato la discussione con un agile libretto intolato per l’appunto “Quel che resta del padre”. Molti di noi, in vista del seminario di Torreglia, se lo sono letto, ricavandone l’impressione che accanto a molte osservazioni pregnanti, ci sia in quel testo una singolare sottovalutazione del ruolo giocato dalle donne in questo mutamento dei ruoli e del simbolico familiare. E anche il rischio di una qualche nostalgia, pur tra i tanti distinguo, per quel ruolo normativo maschile più o meno svanito e comunque descritto quasi prescindendo dal tipo di relazione nuova da costruire non solo con i figli, ma anche con la loro madre e le altre donne.
Che il tema sia all’ordine del giorno lo dicono i servizi pressoché quotidiani sui media e numerosissimi film che tengono al centro l’inconsistenza di uomini e padri (cito solo i recenti “Il bambino con la biciletta”, o “Scialla”, nel quale si mette in scena anche una capacità di riscatto paterno, se pur tardivo. Così come il tema del riscatto è al centro delle pellicole citate nel libro di Recalcati: “La strada”, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, dove un padre rimasto solo si prende cura del figlio in un ostile, terribile mondo post-atomico, e “Gran Torino” di Clint Eastwood, dove un vecchio operaio americano, padre autoritario e fallito, si sacrifica per il bene di un giovane immigrato “adottato”).
Ma il confronto a Torreglia, come tutti quelli tenuti nel corso degli anni, non aveva certo un obiettivo di ricerca sociologica o psicanalitica. La questione era e resta politica: come si manifesta concretamente questa crisi di autorità maschile? Gli uomini ne sono consapevoli e che cosa fanno per reagire? Ed è possibile, utile, desiderabile e desiderato uno scambio su questo terreno con l’universo femminile?
L’impazienza femminile.
Mentre scrivo, all’inizio del 2012, stanno per essere stampati gli atti di quella discussione, che mi auguro possa allargarsi e approfondirsi. Io ne riporto qui un unico elemento, quello che mi ha colpito di più. Di fronte alle un po’ faticose autoanalisi di noi uomini, alla prospettazione di una pratica politica fatta di scambi tra soli maschi, tra donne, e poi di ricerca in comune, di scandagli sulla natura diversa del desiderio maschile e femminile, insomma di fronte a un panorama di ulteriori interrogativi, esitazioni, cautele, è venuta da alcune donne una reazione di una certa durezza, di impazienza.
Che cosa ci guadagnerò in questo confronto, dopo anni che mi sento “usata” e resto delusa dai comportamenti egoistici di troppi amici e compagni? Ho già vissuto una lunga e faticosa vita tirando su da sola un figlio: non ho più tanto tempo e tante energie da investire. Siamo stufe di essere solo noi quelle che, come il personaggio di Tarantino, “risolvono i problemi”. Il vostro desiderio? Non mi interessa molto discutere di sessualità: ci serve una alleanza politica.
Affermazioni da parte di amiche della mia generazione (diciamo, per intenderci, quella del ’68). Maggiore disponibilità e interesse a uno scambio anche sui desideri, da e tra persone un po’ più giovani, magari alle prese con le prime esperienze della maternità e della coppia. Credo però che sia giusto tenere conto di questa “impazienza” femminile, ai miei occhi, per esperienza politica e personale, del tutto fondata.
Mi limiterò a qualche appunto sul “che fare” e “che pensare” da un punto di vista maschile, partendo intanto dalla consapevolezza dei disastri che sta provocando questo venir meno di autorità “virilmente” fondata.
Ne abbiamo provato a parlare nel libro scritto con Letizia Paolozzi sulla “Paura degli uomini”(7): molte delle situazioni di grave crisi che ci circondano – la politica, l’economia, la chiesa, l’informazione e la formazione, e naturalmente la famiglia – possono essere descritte e motivate – e sempre più spesso lo sono – principalmente con il fatto che i meccanismi relazionali, culturali e simbolici che sorreggevano il ruolo degli uomini nei luoghi del potere, sembrano essersi inesorabilmente inceppati.
La politica e la democrazia.
All’inizio del 2012 in Italia i sondaggi, per quel che valgono – ma qualcosa valgono – danno i partiti politici allo scalino più basso della credibilità e della fiducia. Non è per niente un caso, ai miei occhi, che la catastrofe del centrodestra di Berlusconi sia stata così profondamente segnata dalla dimensione della ipertrofia erotica del premier e di quasi tutto il mondo che lo circondava. I comportamenti del Cavaliere erano la negazione patente dei “valori” che avrebbero dovuto sorreggere le relazioni maschili della sua parte politica: Dio, patria, famiglia, e quel po’ di cultura sedicente liberale utile in realtà solo a legittimare la ricchezza senza regole e il potere economico altrettanto libero da vincoli.  Un tratto, questo di una sessualità maschile e della sua dimensione pubblica “out of joint”, peraltro non esclusivo della destra. Basti pensare a vicende diverse come quella nostrana dell’ex presidente della Regione Lazio Marrazzo (un testo esemplare è l’intervista da lui rilasciata a Concita De Gregorio sulla Repubblica del 15 agosto 2011 (8)), o quella “globale” che ha coinvolto Dominique Strauss-Kahn.Ma c’è qualcosa di più profondo nella speculare debolezza delle politiche dei partiti di destra e di sinistra, e che non per caso in questo contesto di grave e inedita crisi economica ha fatto emergere lo “strano” governo del professor Monti e l’inedito ruolo del Presidente della Repubblica.
Mi è capitato di osservare (9) che proprio Napolitano, citando nei suoi discorsi sulla crisi attuale il senso di responsabilità nazionale della classe operaia in certi passaggi storici della Repubblica – gli anni ’50 con il Piano del Lavoro della Cgil, la fine dei ’70 in cui il Pci sostenne governi di “solidarietà nazionale” di fronte a una grave crisi economica e sociale, e per tentare una evoluzione dell’intero sistema politico e istituzionale – si è riferito a una stagione in cui l’autorevolezza della politica, soprattutto a sinistra, era saldamente fondata sulla forza simbolica di un soggetto sociale che era sostanzialmente l’operaio maschio.  La stessa larghissima fiducia di cui oggi gode Giorgio Napolitano, che forse è l’unico esponente del ceto politico italiano in questa condizione, è a mio avviso connessa – oltre che alle sue personali doti intellettuali e morali – alla “differenza” che incarna per il suo passato comunista, per quanto esponente dell’ala più “moderata” di quel partito.
Ma qui intravvediamo il paradosso di una luce che brilla ancora provenendo però da una “stella spenta”: infatti quel soggetto sociale, e il sistema di relazioni maschili che a partire da quella identità erano capaci di produrre l’autorità incarnata da molti leader sindacali e politici (da Lama a Trentin, da Togliatti a Berlinguer), hanno perso completamente la “centralità” che è stata così determinante lungo un secolo e mezzo della politica moderna (diciamo dal 1848, quando fu pubblicato il “Manifesto” di Marx e Engels, alla caduta dell’Urss).
Un discorso simile si potrebbe tentare per l’altra grande realtà politica italiana rappresentata dalla Dc e dalla cultura cattolica. Il cui fondamento di autorità, la Chiesa romana, anch’essa certamente informata da un simbolico patriarcale (anche se ricco di forti presenze femminili) sconta nonostante tanti discorsi sul ritorno della religione, una fortissima crisi di credibilità. E infatti gli eredi di questa cultura politica, peraltro assai diversificata al suo interno, sono spaesati e indecisi tra le opzioni di centro, di destra e di sinistra che offre oggi il variopinto ma essenzialmente assai povero mercato politico italiano.
La nozione e il fondamento dell’autorità.
Un primo compito da assegnare al “soggetto maschile”, dovrebbe essere dunque quello di una sorta di autocoscienza capace di intrecciare l’analisi della propria vicenda personale – il “partire da sé” che ci suggerisce il femminismo – con la dimensione culturale e simbolica su cui si sono basati i sistemi di autorità che oggi sembrano vacillare in modo irreversibile. Detto schematicamente, una indagine critica teorica sulla dialettica tra autorità e potere, scandagliandone il segno maschile, e una ricerca e invenzione di nuove pratiche politiche da parte di noi uomini, per riguadagnare l’autorità perduta.
Sono solo un dilettante, quindi riporto alcune impressioni da recenti letture disordinate. Ho già citato la ricerca di Sandro Bellassai. Stefano Ciccone ha riflettuto e agito sul rapporto tra libertà e potere per un uomo in questo momento storico, mettendo molto l’accento sul primo termine, in termini di liberazione da un ruolo che, per quanto fondato sul privilegio patriarcale, diventa comunque una prigione per gli stessi maschi(10). E’ meno esplorata – mi pare – la questione dell’autorità come elemento comunque imprescindibile in un sistema di relazioni, basate sul riconoscimento reciproco, capace di tenere insieme comunità di individui.
Giacomo Marramao, nel suo ultimo libro – “Contro il potere”(11) – aprendo la sua riflessione sul trittico di termini “politica”, “potere”, “potenza”, riconosce al femminismo della differenza il merito di aver proposto “una ridefinizione radicale del concetto di autorità” valorizzandone la dimensione di produttività (la radice etimologica è augere: da cui aumentare, autore ecc.) soprattutto simbolica. E’ stato tradotto in italiano recentemente un vecchio geniale saggio di Alexndre Kojeve sulla nozione di autorità (12), che ne scandaglia le dimensioni simboliche, quasi senza accorgersi che vengono in gioco esclusivamente figure maschili: Kojève definisce, in termini fenomenologici e metafisici, quattro tipi “semplici, puri o elementari” di Autorità: l’Autorità del Padre sul Figlio, legata alla Tradizione, l’Autorità del Signore, fondata sul rischio della propria vita nel Presente, che assoggetta il Servo, l’Autorità del Capo sulla Banda, legata alla capacità di progetto e di Futuro, l’Autorità del Giudice, più svincolata dal Tempo e in un certo senso legata all’Eternità.
Tralascio tutte le considerazioni che legano questa “fenomenologia” dell’Autorità a altrettante teorie filosofiche,  nell’ordine: la teologia scolastica, la teoria Servo/Padrone di Hegel, le teorie sull’Autorità di Aristotele e di Platone. A partire da una definizione di Autorità che ne sottolinea l’origine relazionale e sociale (“perché vi sia Autorità bisogna essere almeno in due”), e il fatto che l’azione che l’Autorità produce non ha bisogno della forza.
Sono molto interessanti le osservazioni politiche sul gioco combinatorio tra i quattro “tipi” di autorità e la dottrina costituzionale moderna della “divisione dei poteri”. L’architettura di Montesquieu, Legislativo (il Capo), Esecutivo (il Signore), Giudiziario (il Giudice), sembra aver rimosso, più o meno consapevolmente, l’Autorità del Padre. E’ figlia di un’epoca rivoluzionaria, che nega la Tradizione e porta fatalmente un equilibrio precario tra questi poteri a sviluppare forme statali autoritarie e instabili.  Molto schematicamente, con due possibilità: l’affermarsi del Capo (Napoleone, Hitler, Stalin) a scapito degli altri poteri (e riassumendo, peraltro, alcuni tratti dell’Autorità paterna rimossa). Oppure, e più strutturalmente, del Giudice, contro il Capo e il Signore. Ma anche l’Autorità del Giudice non può reggersi se nel conflitto vengono meno le altre fonti di Autorità.
Un discorso abbozzato nel 1942 e pubblicato postumo in Francia solo nel 2004 sembra dirci molto delle condizioni attuali della democrazia, svuotata dalla globalizzazione finanziaria, insidiata dai populismi mediatici da un lato, da una verticale caduta di fiducia dei cittadini dall’altro.
Queste figure “pure” di Autorità, sono tutte puramente maschili. Kojève iscrive senza ulteriori commenti la relazione di dominio tra Uomo e Donna dentro lo schema hegeliano Padrone e Servo.  Ricorda un po’ di sfuggita la problematicità di una piena cittadinanza femminile nelle costituzioni moderne e il conflitto famiglia-stato-diritto simbolizzato sin dall’Antigone.
A questo tipo di analisi accosto quella, molto originale e ancora di più pregnante ai miei occhi, che qualche anno dopo – siamo nel 1950 – dedica in termini molto sintetici al significato della democrazia lo psicanalista e pediatra Donald W. Winnicot (13).
Non parla di “autorità”, ma mette in relazione il buon funzionamento della democrazia – un sistema in cui il popolo gode di libertà, sceglie capi e governi mediante il voto segreto – alla presenza nel corpo sociale di una buona quantità di persone “mature”, cioè “capaci di diventare depresse, capaci di trovare l’intero conflitto nell’ambito del proprio Sé, così come di scorgerlo fuori del Sé, nella realtà esterna (partecipata)”. Persone che si differenziano da quelle immature, che possono assumere due tipologie: coloro che reagiscono alla propria insicurezza con tendenze antisociali e aggressive, o al contrario che si identificano con l’autorità, qui intesa come il potere e la sua forza. Ecco un altro modo di leggere le insidie dell’instabilità e dell’autoritarismo nella vita della democrazia. E un’altra avvertenza, estremamente attuale, riguarda l’inpossibilità di imporre o esportare la democrazia in società che non abbiamo sviluppato autonomamente quegli elementi di “maturità” individuale e sociale. Ma Winnicot vede la radice del problema non tanto nelle “forme” della politica e delle istituzioni (anche se si pronuncia per l’importanza di riconoscere e eleggere le persone, come processo più libero e “maturo”, rispetto al consenso che si dirige piuttosto ai partiti, alle formazioni collettive e ideologiche) quanto nella funzione insostituibile per la formazione del carattere che riveste il ruolo dei genitori verso i figli, e in particolare quello della madre nei primi mesi e anni della vita del bambino (“Qui il padre – osserva Winnicot – è il custode che rende libera la madre di dedicarsi al suo bimbo”).  Questa relazione inoltre va tenuta al riparo da ogni pretesa intrusiva da parte dei sistemi istituzionali di vario genere. Un’altra osservazione riguarda la profondità della differenza dei sessi, anche se Winnicot non usa questo termine e si interroga sull’opportunità di parlare di “uomo” e “donna” al posto di “persone”. Perché anche nei sistemi democratici i leader sono quasi tutti uomini? La risposta che troviamo qui è la grande paura, per lo più inconscia, che suscita la figura femminile (negli uomini ma anche nelle donne). L’origine di questa paura sta nel “debito” che ognuno di noi ha verso la donna la cui dedizione è stata essenziale per un sano sviluppo quando eravamo bambini. Da qui nascono anche le pratiche di segregazione e espulsione e “l’enorme quantità di crudeltà verso la donna che si riscontra in costumi accettati in quasi tutte le civiltà”.
Qualche modesta proposta.
Dobbiamo dunque riflettere e interrogarci, noi uomini. Ma come agire? Come “darsi una mossa” capace di non eludere l’impazienza delle amiche, compagne, mogli, figlie (e figli naturalmente) che ci guardano? Una ricerca e diverse esperienze si sono aperte, come ho accennato all’inizio. Mi sembra molto importante una “vigilanza” rispetto al rischio che anche le pratiche politiche maschili agite in nome di una presa di coscienza critica rispetto al patriarcato, e attente all’esperienza e al pensiero femminile, finiscano per riprodurre i vecchi vizi di chi pretende di cambiare ideologicamente il mondo, con elementi di autoreferenzialità e identità maschile che sorreggono magari nuove forme autoconsolatorie, o – peggio – la evocazione più o meno inconscia di modelli di “maschio buono” che si contrappongono a quelli “cattivi” prevalenti. Un equivoco “edificante”, insomma(14).
Forse per essere credibili noi dobbiamo, per così dire, tenere il piede “in due staffe”. Occuparci del vecchio mondo patriarcale che crolla, farcene carico, e cercare di riconoscere e inventare le nuove pratiche e i nuovi pensieri che possono aprire un’altra dimensione.  In questo momento da diverse situazioni del femminismo italiano viene una lettura delle novità nel lavoro, nel momento in cui la femminilizzazione determina e accompagna il venir meno delle storiche divisioni tra pubblico e privato, tra lavoro per la produzione e lavoro per la cura, che può divenire la leva di una rifondazione della politica (15).  Ma nell’universo maschile, anche nelle aree politiche che si definiscono più critiche e radicali, permane una sordità che deve essere rotta.
Nell’ambito dei partiti e elle associazioni politiche forse andrebbe sostenuta con più convinzione l’idea che alle cariche apicali siano sempre previsti un uomo e una donna. Non per riprodurre equivoci paritari (come quello, a mio avviso, del 50 e 50), ma per sollecitare un cambio nelle pratiche di relazione e nella simbologia dell’autorità.
Un’altra idea mi è venuta discutendo i contenuti del testo “la cura del vivere”, nel momento in cui in Liguria c’era l’emergenza e il dramma delle alluvioni, in gran parte determinate dall’incuria dei territori collinari e boschivi della mia regione. Ho pensato – ma ho visto che un’idea simile è stata proposta anche da Fulvia Bandoli in un convegno organizzato da Sinistra Ecologia e Libertà sulle emergenze ambientali – che per affrontare certi compiti di gestione e risanamento del territorio che il mercato non sembra capace di sostenere, sia necessario un servizio civile obbligatorio, capace di mobilitare ogni anno migliaia di giovani. Il pensiero è nato nella mia testa intrecciato a un’altra considerazione specificamente rivolta alla realtà maschile. In tanti comportamenti degli uomini oggi leggiamo uno spaesamento, un disordine mentale e caratteriale che produce aggressività, irresponsabilità, spesso connesse alla sessualità. Credo che il desiderio di libertà non contrasti con una esigenza anche di disciplina. Oggi continuano le guerre, sempre più tecnologicamente sofisticate e terribili, ma non esiste più il servizio militare obbligatorio per i maschi. Mi chiedo se non dovrebbe divenire obbligatorio per tutti, maschi e femmine (ma, confesso, penso a un occhio di riguardo ai giovani maschi) un servizio civile con i compiti di cura del territorio e degli altri che ne hanno bisogno, come accennavo prima. Ma questo servizio potrebbe avere altre importanti caratteristiche. Se durasse almeno un anno si potrebbe prevederne lo svolgimento per una metà in Italia, e per una metà all’estero, per conoscere un po’ il mondo, magari quelle aree del mondo dove si sta peggio e che hanno bisogno di solidarietà. Si potrebbe prevedere invece come scelta volontaria quella di partecipare alle azioni di corpi di pace, veramente orientati alla prevenzione e alla soluzione positiva dei conflitti, come aveva teorizzato Alex Langer.  Sarebbe un modo di prendere sul serio, e di discutere criticamente fino in fondo, l’idea che è legittimo intervenire quando i deboli sono minacciati dalla violenza dei forti.
Infine, ma non certo per ultima, c’è la prova ineludibile del ruolo paterno. I giovani uomini – ne ha scritto con passione Marco Deriu (16) – sembrano avere desideri più teneri nei confronti dei figli e delle loro compagne madri. Io terrei presenti quelle vecchie considerazioni di Winnicot. Per noi padri più anziani non c’è solo il bilancio del rapporto con i figli che a trent’anni fanno fatica a conquistare una vera autonomia. C’è più in generale uno scontro generazionale non privo di elementi di rancore. Avete costruito una società sbagliata – ci viene rimproverato – e a pagare ora siamo noi figli. Basti pensare alla polemica sul debito pubblico…
Claudio Vedovati ha osservato – sempre a proposito della “cura del vivere” – che nella posizione dei trenta-quarantenni (la generazione TQ) così pronti a contestare i maschi più anziani che stazionano nei luoghi del potere politico e culturale c’è anche qualche elemento di autosvalorizzazione.  E’ un’altra indispensabile discussione da riprendere e affrontare, da una parte e dall’altra, con – perché no – rigore virile.

NOTE
1) Il testo si può leggere sui siti www.maschileplurale.it, e su DeA, www.donnealtri.i
2) Si tratta del Sottosopra rosso, “E’ accaduto non per caso”
3) Cfr l’ultimo libro di Sandro Bellassai: “L’invenzione della virilità”, Carrocci, 2011
4) Rapporto Censis 2010, “Considerazioni generali”
5) Ecco le date di uscita sul “manifesto” degli interventi qui presi in considerazione: Ida Dominijanni (4-12- 10), Massimo Recalcati (7-12), Giuseppe De Rita (8 – 12), Ida Dominijanni (12 – 12); Giseppe De Rita e Massimo Recalcati (4 – 01 -11); Chiara Zamboni (7 – 01 – 11)
6) M.Recalcati: “L’uomo senza inconscio”, Cortina, e “Quel che resta del padre”, Cortina 2011
7) Letizia Paolozzi, Alberto Leiss, “La paura degli uomini. Maschi e femmine nella crisi della politica”, Il Saggiatore, 2009.
8) Questa la risposta di Marrazzo a una delle domande della intervistatrice: “So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all’ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse”.
9) Sul sito DeA: http://www.donnealtri.it/2012/01/il-presidente-il-passato-e-la-differenza/
10) Stefano Ciccone, “Essere maschi tra potere e libertà”, Rosemberg & Sellier, 2009
11) Giacomo Marramao, “Contro il potere. Filosofia e scrittura”, Bompiani, 2011
12) Alexandre Kojeve, “La nozione di autorità”, Adelphi, 2011
13) Donald W. Winnicot, “Alcune riflessioni sul significato della parola democrazia”, in “La famiglia e lo sviluppo dell’individuo”, Edizione speciale su licenza per il Corriere della Sera, 2011
14) Sul punto cfr. intervista a Giacomo Marramao al sito IAPh Italia, associazione internazionale delle filosofe: http://www.iaphitalia.org/index.php?option=com_content&view=article&id=206&Itemid=306
15) Mi riferisco all’esperienza dell’ Agorà del lavoro promossa a Milano e alla discussione aperta dal testo “La cura del vivere” del romano Gruppo del mercoledì (vedi i testi raccolti sul sito DeA: http://www.donnealtri.it/category/cura-del-vivere/)
16) Tra i molti scritti di Marco Deriu sul tema, cito La fragilità dei padri. Il disordine simbolico paterno e il confronto con i figli adolescenti, 2004, Milano, Unicopli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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