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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Sì al lavoro, sì alla cura, sì alla libertà

16 Marzo 2012
di Clelia Mori

 

“La cura del vivere” sta facendo discutere il femminismo. Io per esempio, dopo aver letto questo documento delle donne del Gruppo del mercoledì di Roma, mi sono sentita sollevata e quasi più libera di essere davvero quella me stessa che sapevo di essere. Finalmente quella cura per cui avevo discusso con donne e uomini per molta parte della vita, ma che non sono riuscita a sradicarmi e non credo per volontà patriarcale, potevo riconoscerla pienamente come mia. Senza scadere nella “banalità”, nella mistica e nel “biologismo onnipotente” (Giordana Masotto) e soprattutto senza “svincolarmi” da quella “maternità” che mi ha fattivamente attraversato, e che, secondo Lea Melandri, fa ombra alla “cura” trasformandola in un potere: ma io posso dire che non si pratica con il piacere di un “potere”.

Una curiosa idea unica di potere, piacere, biologia, maternità, onnipotenza, corpo, relazione, tempo, economia. Dentro queste parole non c’è solo l’aspetto unico, spesso negativo, del pensiero maschile. In questa fase della mia vita, so che hanno anche un lato positivo che posso guardare in faccia a testa alta, dato dal mio punto di vista femminile, senza subire solo le tenebre di queste espressioni. Dopo aver detto sì al lavoro, alla maternità, alla politica voglio poter dire sì pubblicamente anche alla cura, magari proprio come a un modello altro di riferimento, e il documento delle femministe del mercoledì me ne ha sdoganato la possibilità. Non voglio lasciarmela sfuggire. Finalmente, posso pensare alla cura che ho svolto clandestinamente (sentendo che era fondamentale che la facessi) non come a un lavoro “fordista” (il lavoro di cura che comunque c’è) di cui magari vergognarmi un po’, ma come qualcosa, proprio “un resto” che se io non facevo sarebbe mancato. Perché sono io che sono in grado di leggere i bisogni delle relazioni affettive che intrattengo (una differente idea di affetto come sesso femminile?) e l’altro non so fino a che punto non vuole fare o non vede proprio.

Se questo vuol dire che coincido con la volontà patriarcale su di me, non so che farci. Però non lo credo. Ne va dell’idea della qualità delle mie relazioni (condizionamenti cultural/clericali e basta?). “Amore”, l’ha chiamato Lilli Rampello, quel “resto, quel di più della cura” (Luisa Boccia) che non è welfarizzabile, che “la fa stare bene nel mondo”. E l’amore nelle relazioni, nello stare nel mondo non lo temo se si chiama cura. E’ il contrario di morte, dolore, sacrificio, e di quella bellezza che non è mai riferita al posto dove sono io, ma sempre al posto in cui sta l’altro (emancipazionismo?), più bello del mio comunque, anche se porta sempre alla crisi, persino globale…

Ma non era stato detto in un Sottosopra rosso che il patriarcato era morto, simbolicamente e non solo? Se questo è vero, come anch’io penso e la crisi globale mi autorizza a credere, allora è venuto il tempo “post-patriarcale” (Ina Pretorius) in cui guardare alla cura come a una liberazione delle capacità femminili. Trasformandola laicamente (Letizia Paolozzi) in quel punto di forza su cui fare “leva” (Alberto Leiss) per iscriverla in quel simbolico del mondo che Riccardo Fanciullacci cercava per lei l’anno scorso a Torreglia, al seminario sulla “Crisi dell’autorità maschile e paterna” e che non trovava.

Riconoscerci tempi, relazioni, economie, cura della vita differenti, senza la paura dei condizionamenti faticosi del patriarcato, credo sia riconoscerci quell’autorità sulla vita che possediamo e che esercitiamo in tutto il mondo (non solo per obbligo, per fortuna, altrimenti saremmo davvero un po’ tutte sceme e allora avrebbero anche fatto bene a imporcelo). Tra l’altro con quell’obbligo, diceva Fanciullacci, il patriarcato riconosceva le nostre capacità e aggiungo io: il suo bisogno.

Credo che non dobbiamo avere paura della nostra cura alle fragilità del mondo. A Milano il 18 febbraio ho avuto la sensazione che la paura navigasse invece sotto la nostra pelle vedendo la difficoltà di accettarla “rovesciata”, penso per il male profondo, inscritto nel nostro Dna, della sua imposizione, ma che non ci fa bene nascondere solo perchè fa male. Rimuoverlo ci può portare a ben altre svalutazioni e all’adozione di modelli stranieri fasulli.

Se noi sappiamo riconoscere il limite, questo sapere è la nostra forza e non è davvero una debolezza, che appartiene invece a chi non sa vedere. E posso perfino arrivare a credere che anche altri possano esercitare la cura, ma a patto che l’accettino profondamente come necessaria dentro di sè dispiegandola nel loro mondo. Dovremmo smettere di pensarla negativa solo perché generalmente gli uomini non la fanno e vogliono farcela fare e noi la facciamo. Gli uomini non sono la nostra pietra di paragone, mi pare dicesse Carla Lonzi e sulla cura dobbiamo ragionare con indipendenza.

Dall’avvento del controllo riproduttivo sul nostro corpo con la pillola e del femminismo, non credo che se ci riconosciamo quel di più della cura e lo nominiamo rischiamo di tornare a vivere nel chiuso delle case.

La difficoltà del lavoro ormai sarà un problema di lungo periodo per tutti/e, (anche se le donne lavorano fuori casa strutturalmente meno degli uomini e questo fa problema non solo alla nostra libertà ma all’ idea stessa di libertà ) e dovrà per forza cambiare la sua organizzazione novecentesca e sessuata se vogliamo insieme, donne e uomini, avere una qualche prospettiva di vita più positiva di quella attuale. Ma dipenderà molto anche da come riusciremo a vendere quel resto della cura al mercato della vita e del lavoro portandoci finalmente tutte noi stesse.

Certo le prime a credere in noi dovremo essere proprio noi, senza lasciarci sopraffare dalla fatica del “doppio sì”. Scegliendo di nominarla sempre, visto che non riusciamo a sradicarcela. Voglio stare nel mondo con senso di me, sicura/e delle nostre relazioni sapienti. Alcuni uomini stanno imparando a coltivarle pagandole come noi, ma non possiamo continuare a pagare la cura che facciamo. Riconoscercela credo possa voler dire proprio darci il potere di farla valere, finalmente, come moneta di “scambio”.

Simbolicamente ci dobbiamo questo non ecumenico riconoscimento se non vogliamo stare in pubblico senza monete fondanti, estranee a noi stesse. Questa nostra debolezza rafforzerebbe quel modo di fare patriarcato che abbiamo dichiarato morto, prolungandocene l’agonia.

La cura per me è davvero l’inaspettata “rivoluzione possibile” tra lavoro e vita che le donne possono “negoziare” (titolo dell’ultimo incontro dell’Agorà del lavoro a Milano) in questo mondo a timbro maschile, ma molto tossico per uomini e donne.

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