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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

L’etica della cura salverà la politica maschile?

16 Marzo 2012
di Franco Monaco

Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato da Franco Monaco all’incontro sulla “Cura del vivere” tenuto a Napoli lo scorso 5 marzo:

Confido nella vostra comprensione. Sono un po’ un alieno, maschio e, cosa ancor più grave, di formazione cattolica tradizionale. Sono qui solo in ragione dell’amicizia che mi lega a Franca Chiaromonte e Anna Maria Carloni. Con il proposito di ascoltare e, se possibile, di imparare. Non è convenevole di rito.

Mi è chiaro infatti che, dentro il vasto e plurale movimento delle donne, voi avete una vostra peculiarità e un percorso originale nel quale non oso neppure provare ad inserirmi.

Solo qualche osservazione sparsa e disordinata.

 Pur dall’esterno e a distanza, mi riesce di percepire la fecondità politico-culturale del contributo del movimento delle donne. Se non sbaglio, tre stelle polari della loro, della vostra  riflessione, tre dimensioni coessenziali e compresenti e tuttavia diversamente dosate dentro un equilibrio dinamico lungo le fasi del movimento, sono rispettivamente: l’uguaglianza, la differenza, la reciprocità. L’uguaglianza non solo, come è ovvio, in dignità ma anche nelle opportunità e nel concreto esercizio di precisi diritti; la differenza di genere senza tuttavia subordinazione né rigida partizione di ruoli sociali; la reciprocità intesa come partecipazione a una umanità più ricca da parte di uomini e donne insieme, nel rispetto e nella valorizzazione delle rispettive autonomie. Reciprocità tra due interi, dunque non complementarietà tra soggetti dimidiati secondo l’infelice metafora delle due mezze mele.

A ben riflettere, tali valori-dimensioni evocano i tre grandi ideali politici della modernità, quelli che affondano le loro radici nell’Illuminismo e nella rivoluzione francese: uguaglianza, libertà come dispiegamento delle differenze personali, fraternità imparentata con la summenzionata reciprocità.

Dunque c’è un nesso e una consonanza tra gli ideali politici dell’occidente democratico e il movimento delle donne. Ma, mi pare, c’è anche un contrasto, un rapporto dialettico, una distanza critica. Anzi si può anche sostenere che l’etica femminista si pone criticamente rispetto alle etiche dominanti della cultura occidentale moderna. Di esse contesta l’astrattezza, la razionalità funzionale e dominatrice, soprattutto la base individualistica (sotto questo aspetto, l’etica femminista, pur con diverse motivazioni, è critica come lo sono come le etiche comunitariste). In particolare, essa giudica inadeguate la teorie della giustizia intesa come un formale sistema di regole e procedure che propiziano la “felicità individuale”. E prima ancora la riduzione del bene, del ben-essere, della vita buona a giustizia, intesa come dare esattamente e solo a ciascuno ciò che gli è dovuto.

Un’etica fondata su un individuo astratto, desituato, espunto da un sistema di relazioni. A cominciare da quelle parentali, generative e riproduttive della persona umana, di cui le donne fanno più intensa esperienza. Scrive Claudia Mancina che “il nocciolo duro dell’etica femminista è la critica dell’autonomia come indipendenza”. Voi, nel vostro documento, lo segnalate come un limite più vistoso in noi uomini maschi: la difficoltà di “accettare il loro, il nostro, essere dipendenti da chi ci mette al mondo, ci cresce, ci accudisce, ci ascolta, ci sottrae alla solitudine”. L’illusione e il mito della propria autosufficienza. Il soggetto sta invece al centro di una rete di relazioni. Egli, certo, deve sporgere su di esse come soggetto morale libero, capace di scegliere e dunque di dare significato ad esse, ma non può illudersi di prescinderne. L’etica femminista non fa perno sull’individuo astratto ma su “persone reali immerse in rapporti reali”(Held). Il realismo e la pregnanza di senso delle relazioni che contraddistinguono l’esperienza morale e l’etica femminista non si giustappongono a una distinta moralità maschile, ma ambiscono a generare una visione del mondo, un punto di vista generale, una concezione etica suscettibile di correggere e arricchire profondamente l’etica sociale e politica dominante .

Ho letto da qualche parte che proprio nel quadro dell’etica femminista sono state elaborate l’ ”etica della fiducia” (opposta all’etica della diffidenza, dell’inimicizia, della competizione esasperata); l’ ”etica della responsabilità” (opposta all’etica dell’indifferenza, dell’arbitrio, della sopraffazione); e appunto l’ “etica della cura”.

Spendo una parola su quest’ultima, l’etica della cura. Sullo sfondo di essa stanno le relazione asimmetriche: quella, per chi crede, tra Dio e l’uomo, e per tutti, credenti e non, tra madre e figlio o tra medico e paziente.

“Cura” è parola ricca, pregnante, polisemica. Esemplifico. E’ sinonimo di sollecitudine, sta a dire una disposizione d’animo premurosa verso le persone e le cose. Oppure cura come preoccupazione che genera occupazione, intesa come impegno e dedicazione. Ancora significa accuratezza (usa dire “maneggiare con cura” qualcosa di fragile, vulnerabile o prezioso). L’insegnante, ci rammenta la Deiana, raccomanda agli allievi di mettere più cura nei loro lavori. Infine, cura intesa come assistenza, diagnosi e terapia prestata dal medico alla persona malata. In una parola: avere cura di un bene, prendersi cura di una persona.

Scrive Jean Tronto e ne abbozza una definizione: “la cura è una attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da poterci vivere meglio. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente”. Sempre secondo Tronto: “la cura è per sua stessa natura una sfida all’idea che gli individui siano interamente autonomi ed autosufficienti”. Di più: “avere bisogno di cura significa essere in una condizione di vulnerabilità”.

Qui merita richiamare la tesi di Carol Gilligan, la quale fissa due ideal-tipi dell’orientamento morale, secondo uno schema duale: agli uomini sarebbe intestata una morale dei diritti e della giustizia, fondata su principi astratti e formali di equità, alle donne un’etica della cura e della responsabilità, fondata su criteri concreti e contestuali di interdipendenza e relazionalità. E dunque conclude: “accogliere la prospettiva femminile significa riconoscere l’importanza che riveste per entrambi i sessi la connessione tra sé e l’altro, ammettere l’universalità del bisogno di compassione e di cura”. A sua volta, pur prendendo le mosse da quella rappresentazione dualistica dell’orientamento morale, Elena Pulcini suggerisce una loro positiva integrazione. Cito: “una volta premessa la necessità della reciproca integrazione tra etica della giustizia ed etica della cura, e una volta liberata la cura dalla sua connotazione sacrificale (e oblativa, malintesa, n.d.r.), può emergere la potenzialità dirompente di una prospettiva che reintroduce, nel giudizio morale, la centralità della relazione e del vincolo reciproco, aggiungendo ‘carne e sostanza’ alla logica astratta e formale della difesa dei diritti” e – aggiungo io – al paradigma emancipazionista dello stesso femminismo di un tempo.

Ne risultano esaltati due elementi: la “singolarità dell’altro” (non l’altro generico e astratto) e la “tensione empatica”, il “coinvolgimento affettivo” verso di esso. A questo ultimo riguardo, mi sovviene la parabola evangelica del Buon Samaritano: secondo gli esegeti della Sacra Scrittura, il “prossimo” non è il viandante ferito ma è lui, il Samaritano che gli viene in soccorso, quello che gli si fa prossimo e che lo soccorre in quanto, così si legge nella giusta traduzione, “nelle sue viscere si sente mosso a compassione”, un sentimento e una forza che ti premono dentro.

Spero di avere inteso bene il senso della vostra riflessione sulla “cura del vivere”. Voi  dite: si può certo sostenere che le donne vantino una speciale sensibilità/competenza/esperienza in tema di cura per la vita e per la qualità delle relazioni, ma a due condizioni (anche perché i maschi non ne approfittino…): 1) che la cura non sia intesa e vissuta come subalternità, costrizione, destino assegnato da altri e come lavoro di cura familiare e domestico che inibisce ogni altra attività ed interesse (ma a questo obiettivo si era già applicato il femminismo degli anni settanta mirato a un buon welfare pubblico che liberasse tempo ed energie delle donne), ma come “occasione di libertà per sé e per tutte” (Sarasini). Dunque anche come cura di sé (Pomeranzi); 2) che si estenda e si reinterpreti la cifra della cura come “paradigma di interesse generale”, politico in senso largo e alto. Cura intesa come “cura del mondo” (non a caso è questo il titolo del libro della Pulcini), come impegno a che, cito, “il mondo non si regga solo su relazioni di potere, di ricchezza, di sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità”. A queste condizioni, di riflesso, reciprocamente, si riscatta anche il classico lavoro di cura e la sua valenza più generale e politica. Proponete qui un passo del “Comporre una vita” di Mary Catherine Bateson: “ Non impareremo a vivere responsabilmente (politicamente, n.d.r.) questo pianeta se non opereremo fondamentali cambiamenti nel nostro modo di organizzare i rapporti umani, in special modo all’interno della famiglia”. Comporre la vita, ecco un vasto programma! Di privato e pubblico, di famiglia e società, di etica e politica, per uomini e donne.

Qui introducete la cifra interessante e feconda del “resto” da riscattare e qui figura un cenno critico e autocritico alla tradizione emancipazionista della sinistra politica e sindacale che ha considerato la cura come dimensione residuale di cui se possibile e in quanto possibile alleggerirsi.

Non si può non intuire quale rivolgimento positivo produrrebbe l’investimento della categoria della cura nel pensiero e nell’azione politica. Sottraendo quella “cifra” al suo storico confinamento nella sfera privata e familiare e all’affidamento di essa alla donna come obbligo, subordinazione, destino. Non come scelta libera quale si conviene a un agente morale. E’ presto detta la ragione per la quale la cura rappresenta un principio rivoluzionario per la vita e la politica insieme. Ce lo richiama con crudo realismo Fulvia Bandoli: perché, osserva, “dell’incuria, l’opposto della cura, è piena la vita, il rapporto con la natura, con le istituzioni, con le persone, con il nostro corpo”.

Una politica informata alla cura farebbe decisamente la differenza rispetto alla politica corrente (maschile) sotto più di un profilo:
– senza coltivare un ingenuo irenismo, tuttavia si marcherebbe la distanza da una politica tutta consegnata alla competizione ossessiva e alla volontà di dominio e di possesso;

– ci si farebbe carico della sorte dei soggetti deboli e non solo di chi può farsi valere;

– si sarebbe solleciti verso la salvaguardia dell’ecosistema e la giustizia tra le generazioni;

– avremmo una politica “con l’anima”, corroborata da un riconoscibile coinvolgimento etico e persino emotivo;

– si avrebbe il senso della globalità dei bisogni e dei valori di una comunità, con quella attenzione a tutto, compresi i particolari, che è propria della cura della casa e come si conviene alla buona politica che è sintesi, arte architettonica;

– la politica porterebbe il segno della concretezza, un carattere antiideolgico, l’aderenza alle domande reali di persone e gruppi reali.

In sintesi, potrebbe contribuire a inverare il valore negletto della triade del 1789: la fraternità, appunto come cifra politica. Scusate se è poco.

Da ultimo un grazie. Non è questo un genere di discorso a me familiare. Eppure non abbiamo ragionato di questioni estranee alla politica. Al contrario, esse ci restituiscono al suo senso e al suo fondamento etico o semplicemente umano, all’interrogativo più radicale: se e in che misura la politica  giovi alla vita buona, al buon vivere, di persone e comunità. Sospetto che, sotto la crosta dell’antipolitica ahimè abbondantemente alimentata dai politici, alligni questa più fondamentale domanda. Se è così, la casta non si salverà solo con il taglio ai suoi privilegi. Al fondo è un problema di senso e di utilità della politica in rapporto alla vita.

Mino Martinazzoli, politico amico scomparso di recente decisamente atipico, uomo che dissimulava una intensa passione politica coltivando insieme la coscienza del suo alto valore e del suo immanente limite, era solito richiamare a sé stesso e agli altri che “la politica conta, ma conta di più la vita”. Un modo per esigere che la politica si misuri con la esigente pietra di paragone della pienezza della vita.

 

 

 

 

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