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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Il deficit più grave della sinistra italiana

2 Febbraio 2012
Pubblicato sul manifesto il 1 febbraio 2012
di Alberto Leiss
La discussione aperta da Alberto Asor Rosa è quanto mai opportuna (“I sette pilastri della saggezza”, il manifesto 19/1). Interrogarsi su Monti e sull’atteggiamento politico da assumere nei confronti del suo “strano” governo significa infatti verificare se si è capaci – come direbbe Tronti – di formulare un giudizio critico forte sulla “fase”, e misurare così l’esistenza o meno di una cultura politica, a sinistra, in grado di elaborare una proposta credibile. Anch’io penso che si sia aperto per la sinistra italiana «un terreno più avanzato di lotta e di proposta» con l’operazione politica voluta da Napolitano – ma non dimentichiamo che vi hanno contribuito i leader europei e lo stesso Obama, tutti molto e giustamente preoccupati per l’Italia (e di conseguenza l’Europa) in bilico nelle mani di Berlusconi. Non condivido quindi certi giudizi venuti da sinistra, in parte presenti anche nell’analisi di Rossana Rossanda (il manifesto 20/1), che insistono sulla “continuità”, se non peggio, tra il governo di Berlusconi e quello di Monti. Pur senza sottovalutare il fatto che il partito del Cavaliere fa parte della maggioranza che sostiene i “tecnici”, ma non per caso, mi sembra, con l’atteggiamento di chi deve trangugiare una medicina sempre più amara.

Per me la differenza non è solo nella “presentabilità” e “sobrietà” dei tecnici, ma proprio nella posizione politica e nella cultura di Monti e di molti dei suoi ministri e ministre. A cominciare dalla scelta per un’Europa forte non solo economicamente, ma politicamente. Questa a me pare una discriminante fondamentale per qualunque politica di sinistra. Bisognerebbe dire molto più chiaramente e con decisione che per contare qualcosa nella globalizzazione – per contare anche in favore di chi ha meno potere e meno reddito – servono gli Stati Uniti d’Europa. Questo non significa naturalmente esser d’accordo con l’ideologia liberista e monetarista che sorregge ancora molte delle scelte che oggi prevalgono in Europa. Ma andrebbe valutato sino in fondo lo strano paradosso di una costruzione europea che dai tempi della Ceca, allo Sme, a Maastricht e all’Euro, ha scelto – quasi seguendo un principio marxisticamente ortodosso – di far sì che fosse la “struttura” economica a spingere la “sovrastruttura” dell’unificazione politica. Oggi, dopo la moneta unica e nel pieno di una crisi capitalistica inedita, emerge in primo piano che per l’Europa è venuto il tempo della politica. Il centrodestra italiano è sempre stato – e sostanzialmente resta – tiepido se non apertamente ostile verso l’Europa unita. Ancora oggi l’ineffabile Tremonti rimpiange il ruolo delle nazioni, come fossimo ancora nel mondo di Adam Smith. E l’idea di mercato globale certamente “libero”, ma regolato, che incarna Monti non è la stessa coltivata da Berlusconi (e dai suoi alleati e “amici” internazionali Bush, Putin, Gheddafi).
Si dice che con i “tecnici” la politica e la democrazia sono state messe in mora. In realtà la politica è stata svilita e rimossa nei due anni abbondanti in cui la cronaca italiana, con diffusione globale, è stata dominata dalle feste di Arcore, anni coronati da quella sciagurata maggioranza di parlamentari nominati che ha accettato la favola della nipote di Mubarak. Ida Dominijanni era stata la prima a capire che, con le crude parole di Veronica e la testimonianza di Patrizia D’Addario, si era aperto l’inizio della fine della parabola berlusconiana, metafora di una più generale crisi dell’autorità maschile in un mondo segnato dal tramonto del patriarcato. E a questo vuoto di politica ha contribuito una sinistra sostanzialmente incapace di offrire, nel tempo della “biopolitica”, una visione della vita e della società realmente alternativa alla verità messa in scena dal Cavaliere e al mito dell’autosufficienza del mercato. Perché questo è un altro punto che non mi sembra ancora chiarito: la forza del Cavaliere, forse non ancora del tutto esaurita, era, pur tra tante menzogne, quella di dire sostanzialmente la verità su se stesso, il suo mondo, l’idea di società da lui spettacolarmente incarnato.
Napolitano ha esercitato la spinta finale risolutiva per insediare Monti, nominandolo senatore a vita, ma mi sembra sbagliato rimuovere il fatto che Berlusconi aveva perso di fatto la sua maggioranza almeno tre volte. Rimediando all’abbandono di Fini con il miniribaltone Scilipoti, e poi ottenendo proprio dal Colle generosi tempi supplementari. Alla fine ha dovuto arrendersi all’evidenza e al rischio di legare il suo nome a una catastrofe finanziaria e politica italiana e europea. Non c’è stata alcuna sospensione della democrazia – lo dice bene Aldo Tortorella nell’editoriale (“La doppia immagine”) dell’ultimo numero di Critica Marxista – giacché i partiti hanno votato il nuovo governo e la sinistra non se l’è sentita di tentare l’alternativa pur con qualche probabilità di vincere le elezioni. Altro discorso è l’insufficienza sempre più grave dei nostri modelli istituzionali democratici: ma di crisi della rappresentanza non si parla forse da alcuni decenni?
Credo – per concludere – che la riflessione dovrebbe di più insistere sulla crisi verticale che nel “laboratorio italiano” subiscono i vecchi dispositivi della sovranità e della produzione di autorità. Il senso comune ormai lo avverte acutamente, come dimostra il discorso pubblico sul disastro della nave Concordia e del suo capitano. È qui che la cultura politica della sinistra, e non solo della sinistra, presenta il deficit più grave. Asor Rosa ha ragione nel sottolineare il peso di una certa cultura cattolica nello “strano” governo Monti. La legittimazione dei “tecnici”, a differenza di quanto è accaduto in altre fasi di governo tecnico, avviene in presenza della più grave crisi in assoluto dell’immagine dei partiti, e deriva da un input squisitamente politico sovranazionale, dalle competenze economiche, e da quelle radici cattoliche. Da questo punto di vista la Chiesa di Bagnasco è in parte altra cosa da quella di Bertone. E il voto sulle radici cristiane e giudaiche dell’Europa esprime, al di là delle strumentalità politiche, anche il senso di una ricerca dell’autorità perduta rivolta al passato. Come d’altra parte la popolarità finora eccezionale del Presidente della Repubblica ha una radice – come egli stesso ha evocato nel discorso di fine anno – in quell’antica vicinanza al mondo del lavoro del vecchio Pci e ai suoi meccanismi di produzione di credibilità politica.
Ma si tratta di luci che brillano ancora provenendo da grandi “stelle spente”. Non credo che la risposta a questo enorme vuoto possa venire da una nostalgia per le tradizionali forme della politica “di professione” e dei vecchi partiti. Nella tradizione della sinistra mi sembra da recuperare quasi soltanto l’ispirazione “internazionalista”, cosmopolita. Quando Derrida scrisse, già negli anni ’90, quel libro profetico sul ritorno dello “spettro” di Marx lo sottotitolò significativamente sull’esigenza di una “nuova internazionale”.
Ma le cose nuove da pensare e agire ce le ha mostrate il femminismo: un’idea e una pratica della libertà e dell’identità fondate nelle relazioni personali e che si allargano alla dimensione universale senza le astrazioni fatali sull'”individuo” o sulla “comunità” elaborate dal liberalismo (e liberismo) e dal comunismo. La stessa “centralità del lavoro” andrebbe radicalmente ripensata alla luce del venir meno della tradizionale divisione tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e lavoro di cura. È la scoperta della potenza degli spostamenti simbolici: il patriarcato finisce se le donne – come sta avvenendo ormai in tutto il mondo – gli tolgono credito. Forse anche questo capitalismo finanziario impazzito finirà se donne e uomini, in tutto il mondo solo ora unificato in un mercato globale, gli toglieranno credito. Forse sta già avvenendo, da Zuccotti Park a Davos. Il punto è saperlo vedere, nominare, comunicare.

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