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Violenza di genere, risposta a Melandri e Campari

24 Novembre 2011
di Massimo Michele Greco

Quando leggo di politica delle relazioni tra uomini e donne, ho l’attitudine a interrogare i testi parafrasandoli nell’opposto genere, verificando cosa succede. Quando si scrive di genere poi sembra inevitabile usare “doppi apici”, come se non di realtà si trattasse ma solo di rappresentazione. E così mi troverò a fare in questo scritto, utilizzando invece le «virgolette caporali» per frasi estratte dal testo che ho letto. L’appello di Lea Melandri e Maria Grazia Campari della Libera Università delle Donne e di Se Non Ora Quando di Milano,  Perché il 25 novembre non sia solo una ricorrenzacondivisibile nei principi, svela, alla lente della mia verifica, alcune caratteristiche nel linguaggio e nei presupposti che mi hanno sollecitato a rispondere.

Le autrici prendono le distanze dal repertorio di argomentazioni utilizzato nel discorso pubblico politico: l’attribuire alle donne il carattere di «gruppo sociale omogeneo» è una categorizzazione di genere rigida spesso attribuita anche agli uomini e sentita da alcuni di noi abbastanza stretta; la tesi dello «svantaggio storico da colmare» richiama  per me  i complementari privilegi storici maschili, su cui alcuni di noi chiedono venia, altri come me non sentono di averne goduto i dividendi; spero poi che la generalizzazione del «talento» particolare delle donne sia risparmiata anche agli uomini, non rappresentandoli come portatori di una “tara” particolare. Se negli incontri pubblici in cui si dibatte seriamente e con passione della politica dei generi tra pochi uomini e molte donne, laddove concretamente e senza l’affinamento di un testo scritto e riscritto le parole volano semplificate, si partisse da questa base di confronto, già sarebbe un sollievo per me e per parteciparvi agirebbe più il desiderio che il senso del dovere.

Detto questo, l’argomento della subordinazione del ruolo femminile a quello maschile lo capisco. Ho imparato a riconoscerlo anche quando è sottile e assunto inconsapevolmente da donne e uomini, lo metto in discussione apertamente e collettivamente nella mia vita quotidiana e lavorativa. La critica invece al concetto di «differenza di genere» mi sembra necessiti più cautela per non esaurirne la complessità. Dal mio punto di vista e dalla mia esperienza (sono un infermiere) c’è una differenza tra uomini e donne: differenti bisogni, differenti desideri, differenti abilità. Alcuni di questi fattori sono correlati al corpo così come ci nasce, altri  sono “incorporati” ma a volte ugualmente resistenti alla decostruzione, al cambiamento. Mi piace che le autrici scrivano «una visione tutta interna alle ‘differenze di genere’ così come sono arrivate a noi» [il corsivo è mio]. Mi fa pensare che forse bisognerebbe dirlo per l’ennesima volta più chiaramente: si avverte la necessità di ripensare le differenze di genere, non di abolirle. Un lettore e una lettrice ingenui potrebbe non cogliere la sottigliezza e trivializzare il contributo nella solita critica al femminismo come volontà di appiattimento e di mera omogeneizzazione.

La mia posizione comunque è questa: il problema risiede non solo nel fatto che la donna sia identificata con la corporeità, ma che l’uomo non si riconosca una corporeità,  una vera corporeità intendo, vulnerabile, limitata, senziente (insomma … umana!). Direi anche che all’uomo questa corporeità umana non viene riconosciuta e viene scoraggiata. Né il problema risiede solo nel fatto che la donna sia identificata con il prendersi cura, ma che l’uomo non riconosca e apprezzi una sua realizzazione come persona in ruoli accudenti e solleciti e che gli venga negato questo riconoscimento. Inoltre, non solo la donna ha diritto ad autodeterminarsi come soggetto responsabile del proprio corpo e della propria vita.

Anche l’uomo deve avere lo spazio culturale, politico e simbolico per autodeterminarsi in dissidenza rispetto a modelli virilisti, eteronormativi, performanti, marziali, violenti. Sottolineo questo perché non è difficile raccogliere vissuti di uomini che hanno avuto difficoltà nelle relazioni affettive con le donne proprio perché non si volevano porre come soggetti forti, rassicuranti, bread-winner, tecnici di riferimento, difensori della propria compagna. E anche perché i lavori di cura – infermiere, insegnante, educatore … – sono in genere svalorizzati in questa società: pochi investimenti destinati a questi settori, poco prestigio sociale, scarso valore politico e culturale attribuito ai saperi della cura e del prendersi cura. Non è coerente con la logica egemone che questi settori si siano via via “femminilizzati”? E perché uomini dissidenti dal maschile tradizionale vengono rappresentati, anche nel discorso politico pur raffinato, come “eccezioni”, “eccentrici”, “dell’altra sponda” e questo non solo da parte degli uomini “normali” ma anche da donne “in buona fede”?

Continuo la lettura. Mi soffermo e condivido ancora il pensiero delle autrici, quando parlano dell’orrendo spettacolo della «mercificazione mediatica del corpo femminile».  Anche qui però non sento nelle autrici alcuna umile  autocritica, ad esempio rispetto a quanto le donne sono disposte oggi (come forse negli anni ’70) a rifiutare pubblicamente una delle tentazioni con cui la donna sin da piccola viene avvinta e trasformata in un oggetto di desiderio: l’ornamento, ossia l’incorporazione del desiderio di diventare “oggetto della seduzione”. Su questo, nessuna parola, eppure stiamo perdendo la battaglia con le nuove generazioni. L’ordine simbolico del patriarcato non si incarna più in figure vive della propria cerchia familiare: quanti di noi uomini potrebbe dire di essere un patriarca nel proprio ambito familiare? Il patriarcato è un concetto zombie, che cammina ancora morto tra di noi ma i cui codici ora sono in mano al consumismo, che ne usa gli stereotipi per conquistare all’acquisto sia gli uomini che le donne. Si può ancora dire che questo sia un problema esclusivamente di «immaginario maschile»? E se ciò va contrastato «a partire dai primissimi messaggi che i bambini ricevono», non è indispensabile anche esplicitare, assunta l’importanza di declinare il genere nel linguaggio politico di un tale appello,  “le bambine”?

Anch’io come le autrici, sottoscrivo la necessità di dare risorse ai Centri Antiviolenza, alle politiche educative e di rifuggire da una semplificazione sicuritaria del problema della violenza maschile contro le donne. Ma aggiungerei una visione a questo, condivisa da alcuni e alcune: diamo una testimonianza forte di come le relazioni e il prendersi cura possano essere  la chiave del cambiamento, per tutti e per tutte.

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