Che le donne facciano resistenza alla guerra non è una novità. Piuttosto, si dovrebbe dubitare dell’affermazione secondo la quale il sesso femminile vada, per natura, inscritto nel pacifismo. Dove “per natura” bisogna intendere l’innato impulso materno che ci avvinghia alla vita e l’altrettanto innata ostilità al “bel morir che tutta la vita onora”.
Intanto, al “bel morir” ci credono in pochi: uomini oltre che donne. E poi, a estremizzare il ragionamento, si finisce per racchiudere la complessità degli individui nel dualismo biologico di una lei pacifista e di un lui predisposto al massacro, quasi possedesse quel gene “che si manifesta come un ormone omicida” (Barbara Ehrenreich).
Non è così. Gli stereotipi spiegano poco o nulla. Vero è che mentre i maschi stanno tirando fuori l’idea di guerra per mettere fine alla guerra, le donne sembrano procedere accumulando ragioni per dare ragione alla pace. “E per la centesima volta ripeto: qualunque idea vale più di qualunque miseria di guerra. E per questo si è nati. E’ il solo contributo che si possa offrire; questo lieve tamburellare di idee sarà la mia raffica di pallottole per la causa della libertà” (Virginia Woolf nel “Canto del mondo reale” di Liliana Rampello il Saggiatore).
Il “lieve tamburellare di idee” significa scrivere libri, testi teatrali, girare film, documentari. Significa agire da protagoniste di una lunga, silenziosa ma inarrestabile marcia femminile testimoniato dal Nobel per la pace 2011 a tre africane. Soprattutto, significa muoversi di sbieco, diffidando della guerra come ce la racconta “Salvate il soldato Ryan” ma anche dell’intervento “giusto” (secondo Michael Walzer) perché condotto in nome di principi politico-etici. D’altronde, contro tiranni di ogni risma che popolano il pianeta, gli interventi potrebbero moltiplicarsi all’infinito.
Nel conflitto dei Balcani la gente si massacrava per seguire la logica aberrante delle piccole patrie etniche e per rivendicare la “superiorità” di una appartenenza. Paesi, villaggi, strade tagliate in due. E ancora, fosse comuni, case sventrate, nere linee dei profughi.
Susan Sontag, costretta brutalmente a confrontarsi non solo con la visione delle città martirizzate ma con un progetto più vasto che consiste nella cancellazione di interi popoli per ridurli a specie in via di estinzione, ha scritto: “Con Serajevo è cominciato il XXI secolo senza aspettare il Duemila per dichiarare la fine del XX”.
Due campi si affrontano. Cercare di difendersi dalla cultura della morte, dalla scomparsa di ogni legame sociale, equivale a essere trattate da traditrici. Eppure, una volta escluso l’Altro, a vincere è la divisione manichea amico-nemico: abolite le differenze, non esiste alcuno scambio e comunicazione. Le donne questo non lo vogliono. Perché “sul piano simbolico, rappresentano più degli uomini uno spazio dove avviene l’incontro, la mescolanza, l’incrocio, la contaminazione” (Rada Ivekovic in “La balcanizzazione della ragione” Manifestolibri).
E lo “spazio dove avviene l’incontro” va punito. Sarà per questo che la violenza si accanisce sul corpo femminile? Attraverso lo stupro diventa terreno di conquista; viene usato per umiliare il nemico. Un simile strumento di offesa della carne e della mente, le donne l’hanno conosciuto non solo in Bosnia, in Kosovo, ma nelle guerre civili africane, nel “paese dalle mille colline”. L’ha compreso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu quando, il 20 giugno del 2008, ha approvato all’unanimità la risoluzione 1820, che classifica lo stupro “arma di guerra”.
Nel frattempo, se “i realisti” avevano sostenuto la guerra come “necessità naturale”, adesso sono comparsi all’orizzonte i meccanismi retorici e linguistici della “guerra umanitaria”. E subito dopo, G.W.Bush prova a convincere gli americani, gli alleati della coalizione, con la dottrina della “guerra preventiva”.
Ma il movimento di Seattle torna a riempire le piazze contro l’invasione dell’Iraq. Per i media, è nata una nuova “superpotenza” con i colori dell’arcobaleno. Le donne sfilano nelle manifestazioni. “E se siamo in tante nel movimento per la pace, è lì che la violenza si attenua perché possiamo cogliere e raccogliere le pratiche politiche nuove che pur nei luoghi del dolore della paura dello spargimento di sangue provano a dire sì alla propria vita e a quella altrui, ponendo un argine all’assalto della morte, della disperazione, della perdita di senso” (in “Fare pace dove c’è guerra” Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano supplemento al n. 64 di Via Dogana).
Tuttavia, a fare la guerra non sono più soltanto gli uomini. Dipenderà da una malintesa applicazione delle pari opportunità, dalla promiscuità dei sessi nel lavoro, nel tempo libero?
In Italia le donne che si sono battute per intraprendere la carriera nell’esercito, considerano una vittoria quel 3 % destinato sia all’area operativa sia a quella logistica. Magari le attrae la possibilità di mostrare la propria forza, come la Uma Thurman di “Kill Bill”. Certo, questo ingresso femminile corrisponde a un cambio simbolico profondo, osteggiato dai più rigidi custodi dell’istituzione militare.
Basta pensare al sipario che si è alzato sulla caserma di Ascoli Piceno, con le allieve affascinate dall’immagine virile del caporalmaggiore Parolisi, accusato di aver ucciso la moglie, e a quelle che si dedicano alla cura dei boss di camorra latitanti. Basta pensare ai riti iniziatici dei Nocs che esaltano il testosterone dei nostri uomini duri.
In Usa, il numero di donne nelle forze armate raggiunge il 16 %. La maggior parte arruolata nell’esercito, solo il 6% nei Marines. Durante la Guerra del Golfo, primo vero battesimo del fuoco, il 7 per cento delle donne erano impiegate nelle forze operative e il 17 per cento nei riservisti e nella Guardia Nazionale.
Oggi, in Iraq, sono nella logistica, nei rifornimenti, nelle squadre di genieri, nei servizi dove il loro numero è cresciuto col crescere della tecnologia. Molte impiegate sui cacciabombardieri, elicotteri, aerei da ricognizione, mentre nelle unità di combattimento il loro impiego è vietato.
Tuttavia, se non combattono, a volte torturano. L’immagine dei prigionieri nudi e impilati nel carcere di Abu Ghraib ha rovesciato ogni sicurezza sulla bontà femminile. Nelle foto, abbiamo visto due corpi uniti da un guinzaglio. L’uomo a terra, incappucciato, bocconi e nudo. Lynndie England, soldatessa riservista, in posa per questo incongruo souvenir: aguzzina con detenuto (il numero 45 di “Leggendaria” è incentrato su ciò che avvenne nel carcere iracheno).
In fondo, il corpo e soprattutto il corpo femminile è sempre in gioco. Quando Laura Bush spiegò che gli americani si erano dati il compito di “liberare” (Ida Dominijanni nei suoi articoli sul “Manifesto”) le afghane dal burqa. Adesso che l’intenso dibattito sull’esclusione delle donne dalla prima linea suggerisce che sì, proprio il corpo delle donne ha effetti dirompenti nello svelare il maschilismo connesso alla guerra, con le sue dinamiche sessuali (è ciò che accade anche in politica, esploso con la vicenda di Berlusconi).
Rovesciando il ragionamento sul corpo delle donne, la frase “Pas de révolution… sans révolutionnaires” si potrebbe applicare in Libia dove, tra “ribelli”, capi tribù pro e contro Gheddafi, non si vedono che maschi.
Certo, i bombardamenti dall’alto e l’evoluzione tecnologica con le imprese mirabolanti dei droni (qualcuno prova a dire che si tratta di omicidi mirati ma non ci sono “lacrime per le rose” se gli aerei senza pilota uccidono comandanti militari, terroristi affiliati di Al Qaida) e i fantascientifici scontri tra robot, tendono a far sparire la presenza dell’uomo. Peccato che il discorso non vale per il nemico, spesso rappresentato dalla popolazione civile.
Se ne è resa conto la storica Anna Bravo che (nella risposta a Alberto Leiss in “Libertà e conflitti nella città-mondo” Sagep editori), riferendosi alla Libia, stretta tra il rais con le sue minacce di far scorrere “fiumi di sangue” e i festeggiamenti a Tripoli dei “liberatori” Sarkozy e Cameron, immagina “una forza attrezzata a gestire la soluzione del conflitto con le capacità e l’intelligenza umana, degli uomini e delle donne, non delle bombe”.
In effetti le bombe non sono mai risolutive. Meglio dunque restare aggrappate a Virginia Woolf: “Tutto fumo questa guerra. Una vecchia signora che si aggiusta il cappello possiede maggiore concretezza”. L’impossibilità della guerra sta proprio in questo suo vendere fumo. O promettere bugie. D’altronde, quando mai vincere o perdere sono termini adatti a valutare la vita, tutte le vite?