La cura: vuoto, desiderio, miracolo.

24 Novembre 2011
Intervento all'incontro sulla "Cura del vivere", 30 ottobre
di Gabriella Bonacchi

Non vorrei venisse frainteso come mera civetteria il fatto che anch’io, come altre in altri commenti al testo qui discusso, cominci la mia breve riflessione da un uomo. Il problema è che qualcun altro, un uomo, il più famoso tra i sociologi italiani, ha già mirabilmente detto qual’è il cuore degli argomenti molto più delicatamente argomentati dalle amiche del mercoledì nel loro scritto sulla cura. Nel mare in tempesta della globalizzazione – ha ammesso a fatica Alessandro Pizzorno, quasi ruzzolando dalle normali gerarchie di rilevanze della sua materia – la cerchia del riconoscimento è il porto da cui partire per svelare l’arcano della realtà contemporanea, evitando le insidie dell’individualismo metodologico.

Certo qui siamo di fronte a una concettualizzazione che inaridisce fin quasi allo snaturamento, la miriade di pratiche quotidiane di cui è storicamente intessuta l’attitudine delle donne a “prendersi cura”: dell’altro, di sé e – in definitiva – del mondo. Già Shakespeare si arrendeva alla volatilità delle nostre radici esistenziali: noi siamo fatti – diceva, incantatato e atterrito – della “stessa materia di cui sono fatti i sogni”. E non è un caso che sempre e sempre di nuovo ci troviamo a dover ricorrere a Shakespeare per addentrarci in quel complesso sistema di transazioni tra immaginazione e realtà che rende possibile la relazione. E’ la capacità di “far di uno due” che regge un rapporto, ed è questa capacità che la madre ci insegna. In questo senso è giusto rivendicare come “capacità” femminile (Amartya Sen) il saper prendersi cura.

Ma questa rivendicazione può nascondere un inganno, contro il quale ha messo in guardia, a suo tempo, un bellissimo breve saggio che Manuela Fraire ha dedicato alla differenza tra l’atteso (il bambino sognato) e l’ospite (il bambino reale). Ciò che infatti rende possibile il “far di uno due” è – irriducibile – il desiderio femminile. Fu questa, a ben vedere, l’inaspettata scoperta della battaglia intorno all’aborto: una battaglia che non cessa – a tutt’oggi – di traumatizzare chiunque vi rifletta con un po’ di calma e di lucidità. In quell’occasione ci si accorse infatti che le donne potevano non desiderare un figlio, e che era dunque soltanto il desiderio di una donna che consentiva ad un bambino di venire al mondo. Ma il filo del desiderio materno insegue il figlio anche dopo la nascita. Anzi, è dopo la nascita che le trame materne si infittiscono. Solo se fa i conti con il figlio reale, ospite straniero rispetto all’atteso fantasticato, la madre riesce a “far di uno due” e a creare così i presupposti della relazione.

Il desiderio femminile, il femminismo ci ha insegnato a decifrarlo, non è una freccia che si muova secondo una traiettoria lineare: è fatto prima di sconcerto e poi di accostamento all’oggetto. L’oggetto incontrato non è mai conforme al proprio desiderio. E’ questo vuoto, questa discrepanza che rende miracolosa – quando si mette all’opera – la capacità femminile della cura. Perchè sul vuoto può innestarsi la dissoluzione dell’oggetto reale in “materia di cui sono fatti i sogni”.

L’incontro con l’atteso non immette elementi nuovi nella relazione con l’altro. Questi elementi nuovi possono emergere solo dall’incontro con un ospite inatteso, non ancora conosciuto, né entrato nella propria vita neppure nelle sembianze dell’atteso. Ma per far questo, l’ospite deve differire e l’incontro con lui deve avvenire in un territorio non familiare, una terra d’esplorazione del tutto nuova e misteriosa.

Tutto questo lo sappiamo in virtù del trauma della nascita. Perchè è nella nascita che il nuovo nato si srotola, si dispiega e piange. Finchè una donna, la madre, lo consola, nonostante l’inquietudine dell’incontro con chi è probabilmente del tutto diverso da chi si attendeva.

E se è soltanto propria ad alcune di noi l’esperienza dell’aver fatto nascere, è propria a tutti noi l’esperienza di essere nati e di aver temuto, sperato e poi – forse – ringraziato la donna che ci ha riconosciute, dopo un processo non sempre breve, come gli  attesi.

 

 

 

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