Il potenziale trasformativo della cura

22 Novembre 2011
Intervento all'incontro sulla "Cura del vivere", 30 ottobre
di Annalisa Marinelli

In anni recenti molto si è parlato del difficile passaggio di testimone tra la generazione del Femminismo storico degli anni ’70 e le generazioni successive. A mio parere il tema della cura rappresenta in questo scenario una sorta di canale di trasmissione nascosto, del quale abbiamo avuto poca coscienza e che invece ha visto uno scambio generazionale fecondo.

Nel Femminismo c’è stata una vera e propria fuga dalla cura vissuta come un destino imposto, come confermano molte delle testimonianze lette nel documento prodotto da “Il Gruppo del Mercoledì”[1]. Questa distanza prodotta dalle femministe ha consentito alle donne delle generazioni successive di non dover più fronteggiare quel fantasma, ma di poter guardare con leggerezza alla cura come a un bacino di competenze e di saperi tra i tanti. Le posizioni di partenza dunque sono state molto diverse.

Quella cesura così necessaria nella biografia di molte donne che hanno partecipato all’elaborazione politica del Femminismo negli anni ’70, ha avuto il merito di separare simbolicamente il destino delle donne dalla cura, ma ha anche finito per occultare la matrice di molte delle elaborazioni teoriche rivoluzionarie che il movimento ha prodotto. Perché molto della cultura sviluppata dalle donne – penso al discorso sul corpo, alla pratica delle relazioni o quella del partire da sé – deriva dalla secolare frequentazione intrattenuta dal genere femminile con la pratica della cura. Dei possibili rischi di questa rimozione non si è avuto coscienza per decenni. Probabilmente la ricchezza dei saperi acquisiti con le cure ricevute (quelle che ci accompagnano all’età adulta) forniva materiale sufficiente per poter elaborare in altre forme le riflessioni che dalla cura scaturiscono. Mi viene in mente, per esempio, la vastissima letteratura femminista in omaggio alla figura della madre. Figura che, a mio parere, sostituisce simbolicamente proprio il discorso sulla sapienza della cura declinata dal Femminismo nei temi citati poc’anzi.

Ma è forse in quella distanza dalla cura come pratica che dobbiamo ricercare uno dei motivi dell’affievolirsi della spinta feconda del femminismo nelle generazioni seguenti.

Perdere il contatto con quella matrice (la cura è una sapienza che si acquisisce solo agendola) ha prodotto un disorientamento anche sugli obiettivi da perseguire. In luogo dell’apertura di un conflitto sociale verso una condivisione della cultura della cura tra donne e uomini (che avrebbe presupposto un riconoscimento di valore della cura!), c’è stato negli anni un progressivo abbandono del campo da parte delle giovani donne e dei giovani uomini spinti verso altre ambizioni considerate di maggior valore e riconoscimento sociale (ricadendo in questo nelle gerarchie prodotte dall’ordine simbolico maschile). Così, quella straordinaria spinta rivoluzionaria del femminismo non è riuscita a tradursi in una forza trasformativa per la società. Cosicché nel presente ci troviamo a vivere una realtà definibile a doppio binario: sul piano individuale, privato, chi oggi ha meno di quarant’anni, ha cercato e cerca di mettere in atto i modelli interiorizzati da un’educazione post-femminista che vede donne e uomini con medesime aspettative di diritti e doveri, libertà e responsabilità, opportunità e vincoli. Sul piano sociale però, questa visione si scontra ancora oggi con modelli organizzativi e rappresentazioni simboliche caratterizzati da una pesante inerzia al cambiamento.

Resta comunque, nel rapporto tra le donne e la cura, il merito di una discontinuità con il passato generata dal Femminismo. In questa discontinuità le giovani donne hanno avuto l’agio di pensare alla cura in modo diverso.

È quello che capitò anche a me quando quindici anni fa frequentai un seminario sulla cura organizzato dal Gruppo Vanda del Politecnico di Milano. In quello nacque l’intuizione che dietro la gestualità effimera e quotidiana, che accompagna il lavoro svolto in casa e in famiglia, si celasse una modalità di governo delle cose e un approccio conoscitivo al mondo che avevano tutta la dignità di un vero e proprio paradigma differente. Tale paradigma sembrava fornire proprio quel modello che meglio rispondesse alla complessità dei cambiamenti sociali che si andavano delineando. Sentii l’esigenza di scavare in quella direzione ed elaborai la mia tesi di laurea poi pubblicata nel 2002 con il titolo Etica della cura e progetto. Ancora oggi lavoro su questo solco che non smette di rivelarsi fecondo. Nel corso degli anni ho incrociato sempre più studiose che guardavano a questa dimensione fondamentale dell’esistenza. In particolare voglio citare qui Mariateresa Battaglino, recentemente scomparsa, nella quale ho trovato una compagna di strada autorevole, coerente, credibile che mi ha restituito valore e fecondità di idee.

Oggi, forse anche a causa delle emergenze ambientali e sociali del mondo globalizzato, la consapevolezza della necessità di un modello culturale diverso più vicino alla sapienza della cura, si sta diffondendo velocemente e con piacere vedo che questo tema ha riconquistato anche la gamba autorevole e preziosa di quella generazione di donne “fuggite dalla cura” e che ancora nel 2003, quando presentai la mia tesi alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, la accolsero con un po’ di allarme.

Tra i risultati maturati nel corso della mia ricerca c’è che la cura non sia una competenza connaturata al “femminile” e ad essa consustanziale, ma che la secolare frequentazione della cura da parte delle donne abbia donato loro consapevolezze e modalità proprie di un lavoro che ha come oggetto il corpo, la vulnerabilità della vita e delle relazioni.

È quella consapevolezza che ha tenuto le donne a una distanza diffidente dalla norma maschile, dalle dicotomie autonomia/vincoli, libertà/responsabilità, diritto/dovere, cultura/natura… perché è nella pratica quotidiana della cura che le donne imparano presto che quella fragile impalcatura della norma maschile, con tutte le sue gerarchie e categorie, crollerebbe in un istante senza il sostegno della cura.

Ho imparato anche che la distinzione tra cura e lavoro di cura  è un inutile artificio perché non può veramente esistere la prima senza la seconda. Ed è perniciosa perché rigetta nuovamente in una gerarchia che vorrebbe fuggire dai vincoli del corpo e della vulnerabilità. Sta invece proprio nel restituire primato alla vulnerabilità della vita il potenziale politico trasformativo contenuto nella cura.

L’obiettivo successivo a una presa di coscienza del valore paradigmatico della cura è quello di costruire una società dove tale valore sia condiviso (attraverso una necessaria pratica condivisa) tra uomini e donne perché si cresca insieme nel primato della vulnerabilità indispensabile a costruire una società della cura.



[1] Il Gruppo del Mercoledì, “La cura del vivere”, supplemento di Leggendaria, Anno XV N°89/settembre 2011.

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