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Cura del vivere: una porta aperta

22 Novembre 2011
Intervento di apertura all'incontro sulla "Cura del vivere", 30 ottobre
di Letizia Paolozzi

Iniziamo a pubblicare gli interventi svolti all’incontro del 30 ottobre sulla “Cura del vivere”. Li raccoglieremo poi in un apposito spazio del nostro sito.

Grazie a Anna Maria Crispino che ha deciso di dare  spazio su Leggendaria alla “Cura del vivere”. E grazie  a quante e quanti hanno costruito insieme a noi del Gruppo del mercoledì i vari testi, e ai siti come DeA che hanno messo in circolo il tutto. Naturalmente siamo felici che voi siate qui alla Casa internazionale oggi.

Del nostro lavoro, delle sue oscillazioni, delle minacce di rinuncia, delle fughe impreviste, dirò soltanto, per non prender troppo tempo, che è durato quasi un anno.

Con una scommessa: provare a rovesciare il senso della cura, il quando e il come impronta di sé non solo il lavoro ma i rapporti umani e la politica.                                                                                                                                                                                      Sapevamo che questa riflessione avrebbe comportato dei rischi. Intanto, di  idealizzazione ovvero di slittamento dal lavoro d’amore al lavoro di assistenza, dalla reciprocità alla dipendenza.

Altro rischio, quello di pubblicare delle pagine “poco laiche” giacché la cura è uno degli elementi vitali della cultura cattolica. Mi spiego: la riproduzione di una Madonna in terracotta del Sansovino illustra le pagine del fascicolo. Si tratta di un segno marcatamente religioso, ha rimproverato qualcuna, che colloca le donne nella abnegazione-dedizione.

Io rispondo che non c’è motivo per negare alle donne quella spiritualità che può rendere la cura non un destino femminile da cui rifuggire, ma una pratica deliberata, anzi un «prezioso tesoro».

Per questo, abbiamo deciso di parlare della cura senza timore delle possibili ambiguità che potevano derivarne.

D’altronde, sulla cura si sta molto ragionando. Il libro di Elena Pulcini, nel filone cattolico il libro della filosofa Eva Feder Kittay che ha scritto “La cura dell’amore”, il volume a cura del Gruppo Donne e scrittura (“Cura di sé degli altri del mondo”) della Libera Università delle donne di Milano, i testi pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano, con il manifesto “Immagina che il lavoro”, la costruzione della Agorà milanese, le pagine  Pausa lavoro su “Via Dogana”.

Per noi del Gruppo del mercoledì hanno contato in modo particolare due elementi. Intanto, la nostra differenza, che significa prestare attenzione alla nostra storia di femministe, al come abbiamo scelto di ragionare sulla cura prima criticandola, poi mettendola in naftalina. La cura è balzata fuori di nuovo quando non ci è stato più possibile separare il terreno della produzione da quello della riproduzione, i tempi del lavoro e quelli della vita.

La differenza alla quale siamo affezionate non è quella nominata dal filosofo Mario Tronti assieme a molto altro nel “popolo del turbocapitalismo: composizione sociale, insediamento territoriale, lasciti tradizionali, lingua, dialetto, culture, tra megalopoli, medio e piccolo centro, paese e frazione di paese, differenza femminile, qui, in questo punto, nel basso del sociale”.

Non è neppure il modo in cui la descrivono i giornali. Dopo la manifestazione del 15 ottobre – una giornata in cui il testosterone è esploso fino a cancellare quel lungo e affollato corteo, certo immaginato secondo modalità antiche e che gli organizzatori non sono stati in grado di difendere – la stampa ha dedicato  molte pagine alle “cattive ragazze”. Ecco la differenza! Anche loro come i maschi a tirare pietre! Anche loro arrabbiate e violente!

L’altro elemento che ha segnato e condizionato la nostra riflessione è stata l’elementare filosofia dell’esistenza che costringe tutti e tutte interrogarsi sulla crisi. Sullo stato di una società che dubita sempre di più di ciò che vuol dire vivere insieme.

Elenco molto alla rinfusa, senza un ordine di priorità l’assenza di cura che ravviso nei disastri dell’individualismo, nell’isolamento triste confortato, paradossalmente, dalla fiducia in una libertà assoluta, nell’invidia, nei conflitti orizzontali causati spesso dalla povertà (in Italia quattordici milioni di persone percepiscono meno di 1300 euro al mese. Diciannove milioni sono gli “impoveriti vulnerabili”), e contemporaneamente dal grande disprezzo della fragilità, dal disinteresse per la debolezza.

Ora, nella crisi come stanno in relazione i soggetti, gli uomini e le donne?

Secondo Aldo Bonomi, i modi sarebbero tre: rancore, populismo rinserrato di marca leghista e cura nella comunità. Anche in questa tripartizione e nell’indicazione della “cura nella comunità” la differenza non è nominata: eppure parlano di cura tante giovani donne, strette tra precariato e voglia di progettarsi un futuro. Oppure le badanti (quasi sempre donne) che arrivano da paesi lontani e si trovano a percepire un reddito incrociando polis e oikos e nell’oikos l’esistenza di tante di noi, con i nostri affetti, i nostri rapporti.

Non ci basta la citazione della cura fatta da Bonomi e non ci bastano gli omaggi degli economisti che nella post-modernità si interessano alle donne perché sarebbero più avanti degli uomini nella pratica della reciprocità, nella competizione cooperativa basata sul lavoro di squadra (win-win), nella maggiore relazionalità, ovvero  nel maggiore interesse a curare le relazioni.

E neppure è sufficiente che le donne siano evocate un po’ come “salvatrici” nel momento di crisi oppure come “una risorsa” da meglio utilizzare a beneficio del Pil e del benessere generale.

Noi invece crediamo che dalle donne dipenda in gran parte il lavoro della vita necessario per vivere. Salta agli occhi subito la domanda:  che ne è degli uomini? Chi sa spiegare la loro estraneità alla cura?

Nello “Zibaldone“ (settembre del 1820), Giacomo Leopardi si sofferma sulla compassione: “Come è determinata in gran parte dalla bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali, quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma origine di compassione sia la differenza del sesso, è cosa troppo evidente, quando anche l’amore non ci prenda nessuna parte. Per esempio, ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre ridere molto più quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col paziente (di chi le patisce) di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l’altra parte, massimamente se questa è composta di donne, perché l’uomo, com’è più profondo nei suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità e irriflessioni”.  

Facciamo un balzo di quasi due secoli. La compassione allora, la cura oggi   sarebbero pratiche poco frequentate dagli uomini? Dovremmo rassegnarci ad “appaltare” la cura alle donne (se lo è chiesto Lea Melandri) quasi fosse una “competenza” specificamente femminile?

Infine, dal momento che la cura può andare al mercato ma non è tutta dentro il mercato, e non è tutta dentro lo sfruttamento oppure dentro la abnegazione-dedizione, dal  momento che si fonda sulla qualità dei rapporti, dell’esistere insieme e non sulla quantità dell’accumulo, possiamo inscriverla nell’orizzonte dei beni comuni?

La mia risposta è un sì dubitativo, pronunciato con la diffidenza di chi vede in questo momento la coperta dei beni comuni tirata da troppe parti: nominata come lotta per l’acqua, università, scuola pubblica, informazione critica, battaglie contro il precariato, per un lavoro di qualità, contro lo scempio del territorio.

Penso che certo la cura si fonda (simile in questo a altri beni comuni) sulla qualità dei rapporti ma bisognerebbe aggiungere che è in grado di produrre anche  spessore affettivo: capace insomma di rendere l’umanità meno ferina.

Possiamo partire di qui, da queste prime osservazioni, e da quanto abbiamo scritto nel numero di leggendaria, aperte alle critiche, interessate ai luoghi differenti dove si discuterà della Cura del vivere. Intanto abbiamo aperto una porta.

 

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